“Cosa pensavi mentre accadeva?” – poche umili risposte sulla questione Weinstein e le donne pop corn

Non sono riuscita finora a pronunciarmi sulla questione Weinstein e sulla questione, soprattutto, Asia Argento, perché mi sento molto piccola e inutile davanti a queste tematiche e perché, di base, ho già parecchi motivi di stress nella vita.

Quindi mi sono limitata a leggere, rileggere, sudare, leggere ancora, rimanere sbigottita, ascoltare, sudare nuovamente. Finora. Adesso, per chi c’è , per chi vuole, per me, umilmente dico la mia basandomi solo su quelle che sono le mie esperienze di ragazza molto fortunata e mai, graziaddio, stuprata.

Non faccio qui un sunto della questione, delle denunce di Paltrow, Jolie, Argento, McGowan, perché se avete google sarete più bravi di me a saperne moltissimo. Partirò dal mio breve curriculum di molestie, che si basa fondamentalmente su due cardini:

CARDINE UNO

Quando avevo 18 anni andavo in piscina. Per accedere alla piscina, sotterranea, si doveva fare una scala a chiocciola isolata. Un giorno un tizio ha cominciato a seguirmi dal parcheggio fuori dalla piscina con un rosario di “sei bella”, “mi piaci”, “vieni con me” che mi hanno spaventato un po’ e mi hanno convinta ad accellerare verso la scala a chiocciola. Errore, dovevo fare dietro front. Il ragazzo mi ha seguita e una volta dentro l’edificio mi ha detto “vieni in bagno con me” mi ha preso per un polso, mi ha tirata, io ho puntato i piedi ed ho fatto una cosa inaspettata: ho cominciato a lanciare delle urla non umane, da animale al macello, che hanno fatto sobbalzare il tizio. Io sono corsa via, appena in tempo per sentirlo urlare: “Ti guardo dalle vetrate!”.

In costume, in preda al vomito, mi sono affacciata dalla piscina e lui era lì, oltre i vetri. Sono tornata indietro, ho chiamato mio padre e mi sono fatta venire a prendere.

Fine.

Portavo una minigonna, e non sono riuscita a pensare ad altro per molti giorni seguenti. Questa storia non la conosce praticamente nessuno, e io non me la ricordo, devo dire, come un forte trauma, quantomeno a livello conscio.

CARDINE DUE

Ho avuto la squisita possibilità di lavorare, nella mia vita, per un maiale seriale. Era uno a cui piacevano le donne come a me piacciono i pop corn, e io non mi sento in colpa quando fagocito un pop corn con golosa arroganza. Io davanti ai pop corn proprio non riesco a controllarmi.

Non so se ho reso l’idea.

Si trattava di un tipo che una volta nell’atto di pagarmi il compenso settimanale mi ha detto “tieni, con questi ci compri le mutandine col pizzo”, che si era fatto l’idea di avermi non assunto bensì comprato, e che un giorno decise che era una buona idea infilarmi una mano tra le gambe, per vedersela piroettare nell’aere un secondo dopo. In quella circostanza concluse la questione con: “Un po’ alla volta ti abitui”. Non ho avuto motivo di abituarmi, l’ho spinto via, per me da allora è un poveretto e basta. Nulla di più. Me ne sono andata prima, ma no, non ho fatto casino, non gli ho tirato una sberla, ho continuato a lavorare. Volevo i miei soldi, mi servivano. Ero brava in quel fottuto lavoro. Me li meritavo i soldi che guadagnavo, e forse non me li avrebbe dati se non fossi stata zitta. Avevo 22 anni, probabilmente oggi avrei reagito diversamente. Oggi, protetta dalla maturità, da una forza moltiplicata, forse avrei reagito facendo un casino così.

Forse.

Come credo sia ora chiaro, sono una ragazza fortunata. Non sono finita violentata in un bagno, né sul posto di lavoro. E questo lo abbiamo stabilito. Ora, consapevoli io e tutti del punto di partenza da cui mi avvio, darò la mia risposta ad alcune delle affermazioni idiote che ho letto sulla questione Weinstein.

“Perché denunciare adesso, e non 20 anni fa?”

Davvero. Sfugge anche a me. Perché denunciare ora che ho 40 anni, sono un’attrice conosciuta in tutto il mondo, la mia carriera è ormai marmorea e intoccabile, ho una famiglia, magari un marito o un compagno che lotta al mio fianco, sono cresciuta, psicologicamente pronta?

Perché cavolo non l’ho fatto quando avevo 20 anni, non capivo moltissimo della vita, dovevo ancora costruirmi una carriera, non mi conosceva ancora nessuno?

Cielo, sono proprio un’idiota!

“Alcune hanno detto di NO ed hanno rinunciato a un carriera, quindi si può dire di NO”

È vero, ed è fantastico. Dico davvero: Forse ora tutti saprebbero chi è Tippi Hedren, se avesse detto di sì al buon Alfred. Chi decide per salvaguardare la propria dignità (parola che mi pare piaccia tantissimo usare, in questi giorni, da molti che sembrano aver capito tutto dalla vita). Chi è riuscito a denunciare subito o almeno ci ha provato, ad avere giustizia, come Ambra Battilana Gutierrez, merita elogi e rispetto.

Sopresa: lo meritano anche le altre. Quello che forse non è chiaro, è che a 20 anni (ma anche dopo talvolta) non è affatto chiaro a tutte che la dignità è la cosa più preziosa che hai, Forse la stima che hai di te (sì, anche se sei Angelina Jolie) non è così alta come può apparire dall’esterno. Forse vuoi salvarti il culo, il lavoro, e soprattutto, forse non hai le spalle per sopportare gente che fa affermazioni stupide come: “E tu…ci sei andata quindi nella sua stanza…quindi lo sapevi, no?”.

Forse, se capita a me, non penso che sia vero. Forse penso che apparirei folle e accusatoria se dicessi al mio capo “no, non voglio rimanere in una stanza da sola con te“. Forse sono nel panico e sto pensando “Beh, se proprio dovesse fare qualcosa di stupido io urlo e sono salva, no?”. Forse in camera sua mi ci accompagna una donna e allora penso “se mi ci accompagna lei, sono in una botte di ferro”.

Non so queste cose con certezza, io non c’ero quando è accaduto. E, pensate un po’, non c’eravate neanche voi che la sapete tanto lunga.

“Hanno padri e famiglie famose, erano protette a Hollywood”

E dai rubinetti scende il miele. Certo, se tuo papà è uno famoso tu non hai paura di niente, non ti incolpi di niente, la tua giovinezza è un tagada di gioia e allegria, non vai in depressione, non ti droghi, è tutto bellissimo.

Lasciate che vi faccia un elenco dei pensieri che, per quella che è la mia esperienza, potrebbero venirti se qualcuno ti mette le mani addosso, e nessuno vi ha visti mentre accadeva:

“Cosa ci siamo detti prima?” “IO cosa ho detto?” “Ho il corpo e la faccia di una con cui puoi farlo?” “Le persone in me vedono questo? Tutte? Vogliono molestarmi tutti quanti?” “Non mi crederà nessuno” “Mi rovinerà la vita” “Se lo faccio arrabbiare la prossima volta non si ferma e mi violenta di sicuro” “Sto perdendo tutto” “Non posso dirlo a nessuno” “Ci sono andata io in quella camera” “Fermati” “Se urlo qualcuno mi salverà e io sarò la cogliona troia che prima è entrata qui con lui e poi dice di no e la mia vita sarà rovinata anche se non mi stupra”

La tua amorevole famiglia, i tuoi amici comprensivi, la tua adorata sorella che ti protegge sempre, i soldi, la fama, il tuo talento, quanto sei fantastica; niente di tutto questo ti verrà in mente in quel momento. Non servirà e non servirà neanche dopo che è successo, a meno che tu sia abbastanza forte da concentrarti su tutte queste cose.

Ci sono donne, e ragazze, meravigliose. Eroine incommensurabili, come la ragazzina che è stata violentata sugli scogli a Marechiaro, costretta a sentirsi dare della puttana per mesi prima che due testimoni confermassero che era stata vittima di uno stupro di gruppo. Ha denunciato tutto, li ha stanati su facebook, li ha costretti a venire allo scoperto, è sopravvissuta alla gogna dei social. Ed ha vinto. Lei è per me una vera eroina, ripeto.

E poi ci sono quelle che non denunciano, che non ce la fanno, che non resistono e diventano degne di attenzione, per voi, solo se al culmine del dolore si lanciano dal cavalcavia o si appendono a un albero con una corda. O se non sono Asia Argento, che nei film fa cose sconce quindi, è ovvio, tende a farle anche nella vita (ma siamo seri? Quindi le attrici porno le sodomizziamo tutte “perché sì”? Perché ho letto anche insinuazioni di questo tipo).

“Asia Argento non lo ha fermato mentre subiva un rapporto orale, ha detto che gli avrebbe rovinato la carriera”

Forse gliel’ avrebbe rovinata, forse no. Ma questo, lei, a 20 anni non poteva saperlo. E c’era uno alto più di lei, pesante più di lei, infoiato MILLE VOLTE più di lei (che ha spiegato che era infoiata a livello ZERO) che le ha aperto le gambe. E fine.

Questa cosa, se accade (ebbene sì, anche se tuo padre è UNO-FA-MO-SO) ti rimbomba nel cervello, con tutto il carico di sensi di colpa che si creano. Non occorre essere fini psicologi per sapere che dietro a molte molestie c’è una vittima che si chiede: “Sono io, in quanto me, la causa di queste molestie?”

“Ha avuto con lui una relazione lunga 5 anni quindi ci è stata quando le serviva”

Io capisco che leggere gli articoli in lingua originale non sia un dovere, ma se poi vogliamo disquisire di cose importanti è bene cominciare ad informarsi. Asia Argento non dice al New Yorker che Weinstein è stato il suo fidanzato per 5 anni. Parla di episodi sporadici, “univoci e platonici” e dà una spiegazione, condivisibile o meno, per ognuno di essi. Se vogliamo criticare la sua posizione, prima potrebbe essere utile capire quale essa, esattamente, sia.

E, cosa quantomeno interessante, spiega: “Ogni volta che me lo ritrovo davanti, sono sempre la ragazzina di 20 anni, sola, in balia di quell’uomo”. È vero, è esattamente così che può accadere. È uno scacco matto mentale al quale non ci piace credere, perché significa che sotto sotto non si è mai abbastanza forti, sotto sotto l’angoscia è come un conato di vomito, disgustoso e inaspettato. Dura un attimo ma c’è.

Forse tutte le donne che hanno denunciato Weinstein mentono. Chissà. Chi può dirlo. Io non ero lì. È per questo che esistono le indagini, i tribunali e roba del genere: perché sono loro, a stabilire certe cose, sulla base di fatti, si spera. Non tutti gli altri.

“È troppo comodo parlare ora”

No, davvero. Adesso qualcuno mi venga a dire che si trae qualche vantaggio a dire non “mi ha legata a un muro, mi ha imbavagliata, mi ha messa nel retro di un furgone, mi ha portata nel bosco e mi ha violentata” MA“Mi sono fidata, non sapevo, non sono riuscita a reagire, mi ha bloccata, avevo paura, mi sentivo di perdere tutto, non sapevo che fare”.

Sentirsi colpevoli quanto il colpevole. Ammettere un silenzio. Ammettere l’assenza di una reazione adeguata. Tutto questo nella coscienza che la gente potrebbe non capire (e infatti non ha capito).

Sapete cosa c’è di comodo? Avere 65 anni e tutti i soldi del mondo, così tanti che anche quando viene a galla che sono un molestatore seriale posso dire “Scusate, davvero, chiedo scusa a tutte le donne che ho fatto soffrire, devo pagare per questo, devo curarmi, sono malato”, ammettere tutto, partire per andare a fare riabilitazione in un centro da due fantamiliardi di dollari al giorno, perdere il lavoro (ma ho 65 anni, non 20, o 40) perdere la moglie, preservare i miei figli, vedere il mio nome sbiadirsi sui giornali perché l’inchiostro serve per quella che “è ambigua”, o per quella che “aveva i genitori a Hollywood” o quella che “poteva dire di no”.

E aspettare che il mondo dimentichi le mie porcate.

Questo, secondo me, è comodo.

Giappone a cazzo di cane – Come se non ci Mochi un domani

Sono giorni che mi arrovello su come dovrei parlare delle vacanze in Giappone, argomento di cui voglio ASSOLUTAMENTE parlare.

E sono giunta alla conclusione che raccontare il viaggio tappa per tappa sia assolutamente impossibile perché stiamo parlando di un itinerario da pellegrinaggio fondamentalista, però fatto da due elementi umani gasati come cavalli da gara sotto doping.

Quindi parlerò del viaggio in Giappone a cazzo di cane (vedi titolo) cercando di raccontarlo usando alcune delle parole che ci hanno accompagnato per tutto il viaggio  o che sono state, in un modo o nell’altro, fondamentali in quei 15, mirabolanti, nipponici giorni.

A come ARIGATOU GOZAIMASU

Si pronuncia “arigato cosaimas” vuol dire “grazie tante” e lo abbiamo detto, in due, circa 547 volte. Circa. Lo si dice combinato con un inchino accennato e per la personalità tipica giapponese, è fondamentale. La cortesia, la pura cortesia, è l’ossigeno di cui l’indole giapponese si nutre. Il giapponese ti tratta bene e con gentilezza e non lo fa perché DEVE. Lo fa perché per lui è un onore farlo.

Bellissimo, eh.

Uscire da un locale vuol dire: “arigato cosaimas” al cameriere che ti risponde “arigato cosaimas” (anzi: “arigato cosaimaaaaaaaas”) poi “arigato cosaimas” al cuoco che risponde “arigato cosaimaaaaas”, poi “arigato cosaimas” alla tipa alla cassa che E BASTA CHE MI SONO GIÀ ROTTA LE PALLE.

S come STRATIFICAZIONE

Giappone vuol dire, tra le altre cose, TOKYO. E Tokyo, signori, io l’ho amata fin da subito. Piena di gente, piena di cose, piena di persone, priva di orologi. Le giornate non finiscono: non c’è un momento in cui la città, effettivamente, si spenga.

Siamo arrivati all’una di notte del lunedì, siamo saliti all’undicesimo piano dell’albergo e quando mi sono affacciata alla camera d’albergo io sono andata in iperventilazione e ho cominciato a dire, priva di contegno, cose come DOBBIAMO USCIRE IMMEDIATAMENTE METTITI LE SCARPE DOBBIAMO ANDARE SUBITO A FARE UN GIRO.

E i 6 giorni di Tokyo sono stati tutti così: veloci, incasinati, rumorosi, ridanciani. E una cosa che ho amato è stato il fatto che una città enorme e piena di esseri umani come Tokyo abbia trovato un modo meraviglioso di svilupparsi: dove non è potuta crescere in orizzontale, espandendosi a macchia d’olio, è cresciuta verticalmente. A Tokyo trovi: sotto terra due/tre strati di metropolitana, a livello terra taxi/bus/metropolitana, sopra la tua testa i treni. Tokyo è una torta multistrato, eppure riesce a non essere mai, veramente caotica: tutti i suoi ingranaggi si incastrano alla perfezione, come se lavorassero diligentemente per affinare questo sistema da 10 secoli.

E quando, all’ora di punta, un migliaio di giapponesi attraversano la stazione di Shinjuku per prendere il treno e nessuno di loro usa la persona alla sua destra come ariete umano per sfondare la massa e arrivare ai binari in tempo, non puoi che amarli in maniera incondizionata.

La stazione dei treni di Kyoto, esempio perfetto di stratificazione e gigantismo architettonico

M come MAN VERSUS FOOD

La questione bacchette la gestisci con disinvoltura nel giro di due giorni, giusto il tempo per capire che non avere una forchetta è il minore dei tuoi problemi. Davvero. Procederò con un breve elenco di cose che ti possono succedere (e che a noi sono successe) in Giappone:

-Soffocarsi con un enorme nighiri con le uova (enorme = della dimensione dell’orecchia di un cocker);

-Mangiare una ciotola di ramen assassino con il quoziente di piccantezza della zuppa ai peperoncini di Quetzaltenango del commissario Winchester (leggi: puntata dei Simpson in cui Homer mangia troppo piccante ed ha episodi allucinatori) e perdere il dono dell’equilibrio per giorni;

-Grigliare pezzi di carne grassissima direttamente sul tavolo, e poi usare il grasso rimasto per soffriggere altra carne grassissima;

-far esplodere varie pallette di riso, per via della poca capacità di controllare la difficilissima equazione RISO-SALSA DI SOIA-BACCHETTE-OCCIDENTALITÀ SPINTA.

Quello che un po’ ci ha consolato, nella nostra esperienza di deficienza manuale-alimentare, è capire che anche i giapponesi fanno cazzate a tavola. Al primo sushi abbiamo guardato come stalker per tutto il pranzo i nostri due vicini di tavolo copiando ossessivamente i loro gesti. Poi uno dei due ha fatto volare un gambero in aria con le bacchette ed ha tranciato un pezzo di tonno in modo accidentale.

E lì è stato un tana libera tutti.

P come PORNO

Allora, se parliamo di Tokyo, tocca menzionare i miliardi di ragazze vestite come 15enni in divisa scolastica alla Gogo Yubari (oddio, in effetti molte sono vestite così perché sono ESATTAMENTE 15enni e tornano da scuola) che stanno fuori dai locali. Non saprei dire se risultano veramente sexy, visto che ce ne sono davvero troppe per risultare esotiche. E va menzionato anche il fatto che fuori da ALCUNI locali ci sono dei tipi con dei cataloghi di tipe discinte, con prezzi a fianco. Il che è assolutamente normale.

Un posto dove i cataloghi di donne vengono considerati solo…cataloghi di donne! non lo so, mi piace! è talmente innocentemente privo di seghe mentali sulla parità dei sessi, che è la vera manifestazione della parità dei sessi! Mi spiego? non credo.

Altra roba fantastica: il palazzo di sei piani ad Akihabara in cui vendevano solo fumetti porno. Ma c’è effettivamente bisogno, nel mondo di Tokyo, di 3 piani che vendono solo hentai omosex? compresa una collana che raffigura SOLO ragazzi che portano la mascherina?

Boh, se li vendono, immagino che 3 PIANI sia il numero giusto.

Comunque, il mio ragazzo va matto per le tipe in divisa scolastica.

Beh, anche io.

T come TATUAGGI

Pare che il mio tatuaggio impulsivamente fatto in età minorile sia stato un problema in terra giapponese. Pare, infatti, che la sua presenza arrogante sulla mia spalla non fosse gradita nel soave e rilassante contesto degli Onsen, i bagni termali giapponesi.

Se hai un tatuaggio, in Giappone, sei automaticamente bollato come un membro della Yakuza, la mafia giapponese: per questo motivo, le persone tatuate non sono benvolute in un posto come le terme, in cui gli uomini e le donne vanno ANCHE per scambiarsi confidenze, parlare di lavoro e di affari. Se un tatuato si spiaggia sul bordo di una vasca non è inusuale che uno dei presenti si rechi alla direzione dell’onsen per dire: “C’È UNO DI QUEI FIGLI DI PUTTANA MAFIOSI CHE CREDO VOGLIA ORIGLIARE I MIEI DISCORSI. FATE VOLARE IL SUO CULO DA DELINQUENTE FUORI DA QUI”.

E ovviamente uno potrebbe dire: io sono occidentale, ovvio che io non possa essere una mafiosa giapponese. Certo, è giusto: ma una regola è una regola, e in giappone le regole vanno rispettate. Se i giapponesi tatuati devono essere estromessi dagli Onsen, gli occidentali devono rispettare la stessa regola. Loro sono così: non fanno eccezioni, non fanno sconti.

R come RUMORI

Beh, il mondo giapponese comprende la scoperta di una serie di rumori nuovi di cui dobbiamo assolutamente parlare. Procederei a un elenco:

-la musichetta da water. Quando ti siedi su uno degli accessoriati cessi giapponesi, c’è la possibilità di azionare il tasto “musichetta” per coprire eventuali rumori intestinali che possono creare imbarazzo. Il cesso giapponese è un argomento complesso, che potrei comunque sviluppare efficacemente con le parole chiave: BIDET-INCORPORATO-TE-LA-ASCIUGA-ANCHE;

-i diecimila rumori che ti assalgono insieme in alcuni quartieri, in primis Akihabara, il quartiere dei manga, ecco. Alla fine Schermi che sconvolgono i tuoi sensi, gente che urla, gente che “ARIGATO COSAIMAAAAAAAAAAAS”, tipe vestite da Sailor Jupiter che cercano di convincerti schiamazzando a entrare in un locale;

-lo scroscio dell’acqua. I giapponesi amano l’acqua, che ha un ruolo estremamente importante. L’acqua che scivola su qualsiasi superficie, che gorgoglia piano, mi ha accompagnato ovunque, ed è stato bellissimo;

Io e Paolo, felici e con gli occhi a mandorla per mimetizzarci con la fauna locale. Dietro di noi, i carponi.

-Lo sfrigolare del cibo. Io non so quanta roba saltata alla piastra, grigliata e fritta abbiamo mangiato, ma è stato tantissimo cibo grasso, e lo abbiamo amato tutto (tutto il fantastiliardo di calorie che ha rappresentato). Ormai, a me, il rumore dello sfrigolio della carne sulla piastra provoca lo stesso effetto Madeleine delle canzoncine natalizie.

M (e due) come MOCHI

Ora, io vorrei trovare le parole giuste per descrivere la mia venerazione per quel piccolo miracolo della pasticceria che è il Mochi. Però, come dice Jodie Foster in Contact, “Semplicemente non ci sono parole”.

Il mochi è un dolcino grande come il pugno di un neonato di 3 giorni fatto di una pasta creata schiacciando con superba forza e potenza muscolare, con un martello (ripeto: CON UN MAR-TEL-LO) del riso bollito.

Solitamente, un uomo esperto di mochi (L’Uomo Del Mochi) lavora il riso bollito prima con le mani, poi percuotendo il riso con il martello, poi scaraventandosi con tutta la sua forza (e con il martello) contro la massa morbidosa di riso sfatto. Detto così non riesco chiaramente ad esprimere la violenza di tutto ciò, quindi allego video esplicativo:

Ci siamo capiti?

Il risultato finale è una pasta lavorata come uno gnocco, riempita di crema di fagioli dolci (sembra una merda ma NON LO È) e ci si piazza una fragola sopra. E il Mochi, a quel punto, si cosparge di farina di riso. Vorrei che tutti nel mondo potessero toccare la superficie di un mochi una volta nella vita perché è la cosa più morbida e soffice della galassia.

Io e Paolo siamo dei veri cacciatori di mochi e ovviamente in Giappone abbiamo scrutato ogni stramaledetto angolo della città alla ricerca di dolcetti. I mochi migliori li abbiamo comprati un pomeriggio nel quartiere elettrico, subito prima di perdere l’orientamento ed errare freneticamente  per un’ora senza meta e consapevolezza. Non ci fossero stati i mochi a nutrirci, forse avremmo avuto un fatale calo di zucchero, saremmo svenuti e l’implacabile massa di giapponesi ci avrebbe travolto come una mandria di gnu impazzita.

Questo per dire quanto sanno essere meravigliosi i mochi. Ti salvano pure la vita.

O come OMBRELLI

Allora, abbiamo appurato che ci sono alcune invenzioni che dovremmo assolutamente importare. Tra queste, il must è il porta ombrelli con lucchetto nei luoghi pubblici. Con tutti gli ombrelli che mi hanno fottuto nei negozi, potrei farci un maxi ombrellone da riparare dal sole tutta Malibu. Il porta ombrelli ci ha fatto veramente sballare: esempio di dialogo sul portaombrelli.

IO: “Guarda, hanno anche qui il porta ombrelli!”

PAOLO: “Meraviglia, mettiamoli subito e mettiamoci anche un codice!”

IO: “Certo. Guarda il mio ombrello rosa come spicca!”

PAOLO: “È incredibile che un popolo così geniale abbia perso la guerra”.

Questa storia dei giapponesi che è incredibile che non abbiano vinto la guerra nonostante siano dei geni è stata ripetuta in, diciamo…beh molte volte.

Altra genialata che mi sconvolto, oltre al cesso intelligente, i portaombrelli pubblici, i tatami morbidissimi, le bacchette a forma di spada laser di Star Wars e Totoro, è lo specchio che non si appanna sopra il lavandino, così non devi spugnettarlo dopo la doccia. Allego fotoesplicativa. Chiedo scusa per il nudo, ero troppo eccitata dallo specchio magico per perdere tempo e vestirmi.

C come CONCLUSIONI

Come ormai sarà chiaro a tutti, nel raccontare il Giappone ho fatto un casino.

Non ho raccontato dei bambù fluttuanti ad Arashyama, né della bellezza da panico del museo all’aperto di Hakone.

Non ho menzionato la bellezza luminosa di Shibuya di notte, o del senso di straniamento orgasmico che ti danno i maxischermi con le pubblicità.

Non ho neanche accennato alla meraviglia del palazzo imperiale, paradiso di silenzio e tranquillità acciambellato nell’abbraccio di grattacieli della downtown, o a quanto sia pazzesco che nella stessa città, Kyoto, ci siano le vecchie case da té in fragile ed effimero legno e la più pazzesca stazione ferroviaria che si possa immaginare: 12 piani di ristoranti, negozi, zone da concerto, scale mobili e microuniversi.

Non c’è modo di descrivere il Giappone in poche parole, o in mille parole. O in diecimila.

Andate a visitarlo, cazzo, e levatemi da questo imbarazzo letterario.

Amore, salute, lavoro (un anno di menate varie)

L’ultima volta che ho scritto sul mio blog me la ricordo molto bene. Avevo litigato con Paolo e lui per farsi perdonare, da business man quale ormai è, mi ha portata in un ristorantone di super lusso, di cui poi io avevo fatto recensione qui, riscuotendo un modesto successo di pubblico e di critica. Mi ricordo quella serata: ero di un incazzato praticamente impossibile da quietare ed ero vestita come una soldatessa del PKK. Avevo anche più o meno le intenzioni, di una soldatessa del PKK, ovvero: non dare tregua al mio nemico e vederlo sanguinare. Tempo due ore di richieste di perdono e cibo buono ed ero tornata di ottimo umore. Che venduta che sono.

Dopo quel post, c’è stato un anno di silenzio. Non che non sia successo niente, anzi: tutto il contrario. Io e il business man ci siamo infilati in una convivenza rocambolesca, siamo andati in vacanza alle Fiji prenotando un viaggio dall’altra parte del pianeta su booking (fuck yeah), ci siamo ammazzati di lavoro, siamo diventati magri di stress, abbiamo passato ore, ore e ore, e ore, e ancora ore sul peggiore divano di sempre, il nostro, amandolo senza mezzi termini, sporcandolo, rompendolo, devastandolo, dormendolo. Abbiamo fatto l’albero di Natale, e litigato. Io ho tagliato i capelli di Miriam in bagno seminando il panico e rotto diversi oggetti in tutta casa. Ho scritto lettere d’amore, che ho seminato in tutta casa, e articoli di giornale, tantissimi. Centinaia. Ho scritto liste della spesa, ho scritto messaggi della buona notte in serate di trasferta, ho scritto un sacco di cose.

Ma non ho scritto qui. Anche se me lo chiedevano, ogni tanto, i miei amici: e il post sulle vacanze? e il post sul Natale? troppa vita, gente, non ci riuscivo. Ma adesso, per qualche strano motivo, mi si sono rotte le acque e mi sento pronta a fare un resumé della situazione. A tale scopo, utilizzerò l’amata modalità a elenco, in versione oroscopara.

LAVORO

Allora, la cosa più peculiare che vorrei dire sul tema “portare a casa la pagnotta” è che io faccio esattamente il lavoro che molti mi sconsigliavano di scegliere perché poco remunerativo, e non ho mai guadagnato tanto in vita mia, né avuto un contratto più stabile. Intendiamoci, il mio stipendio non è alto: sono ancora la piccola fiammiferaia di casa. Però, viste le premesse, direi che le cose non sono andate come di solito “vanno le cose”.

Lavoro con una squadra di ragazze giovani, volenterose e determinate. Ci è voluto un po’ a trovarle tutte ma ora sono qui e lavorano fino a sbavare dalla fatica, come i cavalli da corsa. Ho avuto l’occasione di tenere più di una lezione all’università, al corso del mio capo. Mi sono sentita un’intrusa i primi cinque minuti, una cabarettista i successivi 45, una mamma chioccia gli ultimi 10. Ho conosciuto una generazione di universitari che vuole solo farsi un culo così, è sveglia e sembra pronta a farsi masticare viva dal mondo pur di fare esperienza: forse è stato un caso, però i ventenni volenterosi e di talento esistono e vanno protetti. Ho un amico lontano che detesta questo mio idealismo eroico da “sì, vai, crediamo in un futuro migliore e nel fatto di poter cambiare le cose”: lui è un pragmatico, scettico cinico disilluso e temo proprio abbia ragione a dirmi che sono una sognatrice in bilico su un baratro, ma temo di non poter cambiare questa cosa. O comunque, se la cambiassi, poi mi sentirei triste.

Ho un cattivo rapporto con il badge e con gli orari: non ha molto senso avere un orario d’inizio e uno di fine, nel mio lavoro: tanto io faccio rassegna stampa per la prima volta la mattina appena sveglia e l’ultima prima di spegnere la luce la sera. O timbro il cartellino dal comodino, o non vedo come disciplinare la cosa. Per il resto, la vita da dipendente d’azienda con mutua e permessi me la godo tutta.

AMORE

Ecco, io non scrivo praticamente niente del mio intimo privato sui social. Ciò significa che, eccezion fatta per i miei amici intimi, nessuno sa di cosa sono composte le mie giornate. Nessuno ha saputo che andavo a convivere (a dirla tutta, neanche i miei amici: a un certo punto, semplicemente, non ero più metà di qua e metà a casa coi miei ma ero loading 100% a casa di Paolo), né che io e Paolo abbiamo ottenuto un gatto in leasing, ovvero che accudiamo insieme alla sua padrona (leggi: 1 % padrona, 99% noi, che lo viziamo in maniera spa-ven-to-sa). Nessuno sa dove siamo stati in vacanza o che regali ci siamo scambiati per Natale. E nessuno sa che c’è una valletta, in una borgata vicino a Sestriere, in cui c’è una casa piccola e stranissima, con un prato gigante e selvaggio, in cui ci siamo rifugiati tutte le volte che abbiamo potuto, a godere di un qualcosa di paradisiaco che non so bene come spiegare. E nessuno sa la sofferenza che ci provoca non poterci andare, adesso, per il troppo lavoro (anche nel weekend, maledizione, sì).

Sul vivere in due in una casa non so dire molto, non mi ritengo una grande esperta: io e Paolo siamo due figli unici con la tendenza all’autonomia sentimentale che, a un certo punto, decidono di vivere insieme in una casa non propriamente enorme. Non dico che sia stato come far atterrare Philae con Rosetta sulla cometa, ma più o meno… Comunque, sento di poter, dopo un anno di convivenza, elargire le seguenti, mirabili, perle di saggezza:

-Se potete, bagno doppio;

-Se litighi, la cosa di sbattere teatralmente la porta di casa non funziona più tanto bene (dove cazzo te ne vai? passi tre ore in un bar? stalkeri un amico/ un’amica a caso? mica c’è un’altra casa dove andare e sfondarsi di nutella, ora!);

-Anche se hai avuto la peggiore delle giornate di merda, super sorrisone quando torni a casa e lo/la saluti;

-A volte, nonostante quanto detto in partenza, ci rifletti e dici “non è difficile, ehi, aspetta, è davvero facile in fondo in fondo”;

-I capelli nella doccia, motivo di contrasti atomici con violenza verbale da ambo le parti;

-Non importa quanto provi a mantenere un livello di dignità. Prima o poi darai il peggio;

-C’è questa cosa pazzesca per cui hai giornate banali in cui non succede niente di speciale e lui/lei non fa niente di pazzesco e tu men che meno, però fatto sta che tu sarai lì che lo/la guardi mentre spippola il cellulare in mutande sul divano e ti dirà all’improvviso, distrattamente “Ehi, che facciamo, ceniamo a casa?” e tu penserai “OMMIODDIO, io sto con la persona più fica del mondo!”. Il che non ha davvero senso, ma sarai comunque super felice.

SALUTE

Ho letto su facebook una frase che diceva più o meno: l’età adulta comincia quando tua madre smette di prenotare le visite mediche di controllo al posto tuo e tu cominci a procrastinarle sperando di non morire nel frattempo. Beh, sì, più o meno funziona così, ma è anche vero che nel mio caso l’arrivo del terzo decennio si è coordinato con l’avvento di una maturità sanitaria. Vado dal dentista, vado dal dermatologo, cerco di mangiare più o meno sano. Cerco di far virare verso la sopravvivenza spicciola anche Paolo, che mestamente mi segue alle visite specialistiche di base alle quali, senza giri di parole, lo costringo a venire. Cerco persino di usare prodotti per il corpo migliori e, numi del cielo! mi copro quando ho freddo. Giro con la sciarpina in redazione. Sto diventando, signore e signori, mia madre.

Per il resto, anche se come detto cerco di mantenermi sana, la mia vita ha ben poco di salutistico. Mangiamo a ore nefaste, non riesco a fare abbastanza sport, vado a letto tardissimo. La mia attività preferita dalle 11 di sera in poi sono le faccende domestiche. Prediligo la stenditura di panni all’una di notte. Mi sveglio e a malapena mi lavo. Nel mio ufficio, che è grosso, non tutti lavorano in redazione ma coloro che lavorano in redazione sono facili da riconoscere: non si pettinano, non si truccano, sono di sesso femminile. Il giornalismo ti fa cessa, forse. Chissà.

I 30 anni hanno portato un metabolismo sempre uguale ma molto più sonno. C’è anche l’atteso orologio biologico, che francamente al momento è pienamente soddisfatto dal gatto e da Paolo, entrambi accuditi e coccolati in maniera quasi neonatale. Che dire: magari  l’età adulta porterà anche il senno, un giorno, e ricomincerò a scrivere più spesso.

 

È venuto prima l’uovo

Qualche sera fa, a sorpresa, io e Paolo abbiamo deciso che ci sentivamo estremi e siamo andati a mangiare al Combal Zero. Il Combal è il celeberrimo ristorante stellato che dimora, placido e borioso, adagiato ai piedi del castello di Rivoli. Del castello ha il fare principesco, la localizzazione austera e alcune opere. È un locale divenuto celebre perché il suo chef, Davide Scabin, è il fiero sperimentatore della cucina molecolare, che è quella che studia i fenomeni che scaturiscono dal trattare le materie prime. Cosa succede se metto del ghiaccio nell’acqua frizzante? O se frullo un piccione? O se frullo uno dei miei camerieri?

Davide Scabin è noto per un tot di cose: perché è matto, perché gli piace molto giocare, perché ha ispirato un film (Tutte Le Donne Della Mia Vita), perché va in tv e per il Cyber Egg. Quest’ultimo è una roba veramente strana che io ho mangiato e non senza difficoltà e che tenterò di illustrarvi con documentazione fotografica e dovizia di particolari.

Partiamo.

PREMESSA: I ristoranti supermegafighi e l’approccio alla serata

Dunque, io  i ristoranti SMF (SuperMegaFighi) da stella Michelin non li amo incondizionatamente. A me piacciono le bettolacce. Però mi piace anche la roba straordinariamente buona. Il punto è che in questo tipo di ristorante spesso si crea un teatrino un po’ appiccicoso da gestire, fatto di sudditanza eccessiva da parte dei camerieri (che ti osservano come dei falchi su una carogna, pronti a gestire ogni tuo bisogno) che amano chiamarti signora, fanno domande difficili e si assicurano ogni tre minuti che tutto stia andando bene bene bene in modo assurdo. Sto bene, grazie, cameriere numero 8. Lascia stare questa storia dello spostarmi la sedia ogni volta che torno dal bagno. Io faccio la pipì troppo spesso perché questa cosa non faccia uscire di testa entrambi, credimi.

Oltretutto, io e P. non eravamo in formissima. Lui stava tornando da una delle sue giornate endurance a Milano compresso in giacca, cravatta e stress: io ero dell’umore di una che non intende fare prigionieri e, per via di un misunderstanding coniugale che non starò a narrare in questa sede, avevo l’atteggiamento di chi non ha intenzione di rendere le cose facili a nessuno. Camerieri cazzutissimi compresi. Per di più eravamo nella nostra formazione di golden outfit dei vecchi tempi, di quando ancora non fidanzati lui mi recuperava senza preavviso a casa e finivamo a mangiare in posti sciccosissimi, lui tutto elegante da lavoro e io vestita da squatter, col chiodo e i jeans strappati.

LA LOCHESCION

Allora, il locale è figo. È un rettangolone dalle pareti completamente di vetro dalle quali vedi tutta Torino, perché sei su una stramaledetta collina. I tavoli sono pochi e ben distanziati, perché ognuno possa avere la giusta privacy e si possa abbandonare a dichiarazioni spinte al/la proprio/a fidanzato/a sotto i cari influssi di bottiglie di vino che costano quanto un organo interno (naturalmente ci sono i camerieravvoltoi, loro sentiranno tutto ciò che vi dite ma manterranno l’aplomb). Il parquet profuma di parquet. Il bagno delle signore presenta una quantità indescrivibile di asciugamanini di spugna usa e butta-nella-cesta-dei-panni-sporchi con COMBAL ZERO scritto su ognuno di essi. Nel corridoio vedo un’Ultima Cena di un artista contemporaneo che avevo visto nelle sale del Museo del Castello. Come mi muovo corro il rischio di rompere qualcosa che ci costerà un repentino trasferimento in miniera. Abbiamo un nostro tavolo, un satellitare tavolino personale che ospita le bevande e vari trespoli poggia-vassoi che ci attorniano. Abbiamo il tavolo dal lato del panorama. A quel punto non ci resta che cominciare, anche se ancora non sappiamo (anzi, io non so, Paolo sì che ci è già stato) cosa ci aspetta.

COME FUNZIONANO I PIATTI

La gestione del cibo, in questo ristorante, è di per sé una cosa che ti succhia via l’energia vitale. Funziona che tu ordini degli spaghetti e ti arrivano tre camerieri: uno con una ciotola, uno con in mano delle bacchette cinesi e una seppia infuocata (sì, infuocata) e uno con del brodo. E tu vorresti dire: scusate, ma io avevo ordinato degli spaghetti. ‘Sto teatrino cosa mi significa?

Poi scopri che, ehi! quel pastiglione nero pece che ti hanno portato sono gli spaghetti. Tu devi lanciarlo nella ciotola, dove ci sono verdurine miste di cui non identifichi la natura, loro ci tuffano la seppia infuocata e annegano tutto nel brodo. L’intro alla consumazione del piatto è più o meno qualcosa del genere: “Questa è una minestra di farfalle decorticate mantecate all’unicorno vivo e affogate in un brodo di ostrogoto ribelle. Per mangiarla dovete prendere le posate, buttarle, prendere una forcina per capelli e usarla per prendere nell’ordine: un’aluccia di farfalla, un trancio di ostrogoto e un micron di unicorno. Poi strappate le tende della sala e vi ci pulite la bocca. Buon appetito”.

Arrivare in fondo a tutto questo non è semplice, e se io avevo ordinato tre piatti dalla carta quel rapace bulimico del mio fidanzato aveva ordinato un menù-degustazione lungo come una quaresima.

Il Cyber-Egg, perché mangiarlo comporta un preventivo corso di yoga

Allora, ecco, sì, ho ordinato ‘sto rinomatissimo cyber egg. È il piatto per il quale il ristorante è divenuto celebre e si presenta così:

egg

Quella a sinistra sono io. Quello a destra è il Cyber Egg. Come potete vedere, si tratta di prendere un uovo, privarlo del guscio, circondarlo di caviale, metterci un po’ di vodka, ammalloppare il tutto e chiuderlo dentro a una sfera di cellophan formando due camere d’aria. Il concetto è semplice: ti arriva un cibo di cui non identifichi la forma e non percepisci l’odore, né la temperatura. Il concetto di base è che devi permettere al tuo cervello di non fare niente, per una volta, di non dover “percepire”: tutto verrà percepito in un’unica volta, tramite un’unica azione. Hai una palla di plastica che minaccia di esplodere e accanto la palla hai…sì, sì, è un bisturi chirurgico! Grande fiducia nel prossimo, Combal Zero, io avevo litigato con il fidanzato quella sera, cosa mi impediva di aprire un comodo e ampio varco nella sua giugulare? niente! Niente se non il fatto che la curiosità di sapere cosa sarebbe successo alla pallina piena di uovo supera qualsiasi eruzione emotiva.

Succede allora che, seguendo diligentemente le istruzioni del cameriere, tu fori il cyber egg sulla cima e poi (ebbene sì) te lo inglobi tutto intero tra lingua e palato. Poi schiacchi la lingua contro il palato e contemporaneamente estrai il palloncino dalla bocca (lo tenevi saldamente dal picciolo). Meglio non ve lo so spiegare: considerate l’eventualità di guardarvi uno dei video che ci sono su youtube che mostrano come si mangia in modo composto.

SI PROCEDE CON LA GALLERY ESPLICATIVA

Per meglio spiegarvi che tipo di cucina è, ho una serie di testimonianze fotografiche che userò per raccontarvi cosa abbiamo mangiato e con quale grado di entusiasmo.

piccione

PICCIONE CON SALSA AL GIN

Non sono affatto sicura fosse gin. Poteva essere Whisky. O…non lo so. Avrei dovuto prendere appunti. Piatto non ordinato da me ma da Paolo che ha preso il menù degustazione all’incontrario che parte da tale assunto: mangiare le pietanze partendo da quelle che per ultime di solito vengono servite e arrivando agli antipasti permette di gustare piatti che a cui di solito si arriva gastricamente affaticati. Diciamocelo, durante una cena lunga e laboriosa, il terzo secondo lo accogliamo con viva e vibrante soddisfazione o con l’atteggiamento passivo di un morto che cammina? ecco.

capesante

VASSOIO DI CAPESANTE E FRUTTI DI MARE

Quel rettangolo-vassoio che vedete sotto i frutti di mare è composto da capesante lavorate in modo che assumano una consistenza morbida e affabile e che possano fare da supporto ghiottoso ai frutti di mare che vi si adagiano sopra. I gusci dei frutti di mare sono riempiti con delle vere e proprie chicche esperienziali che, se sei un commensale diligente, dovresti alternare ai frutti di mare, fornendo alle tue papille gustative un passaggio forte-piano di gusti che si alternano tra di loro.

rognone

ROSA DI ROGNONE CON SALSA AL BRANDY

La vedete la magnificente rosa creata da lenticolari fette di rognone cucinato a lenta cottura? è immerso in una bagna di Brandy che è stato versato sul momento nel piatto. “Sul momento” è una delle espressioni chiave della cena. I piatti che ci vengono portati vengono quasi sempre finiti a tavola, dove vengono versate salse, aggiunte creme e assemblate zuppe. Ciò che viene creato all’ultimo permette a chi lo mangia di non far sfuggire nessuna molecola di bontà (o almeno: questo è il film che mi sono personalmente fatta sulla questione).

uovo fritto

VERDURE IMPASTELLATE CON SPUMA DI UOVO A NUVOLETTA

Per quanto riguarda le verdure fritte impastellate credo che ci troviamo su un terreno abbastanza stabile: ci sono le verdure, si impastellano. Non credo di dover specificare che in un ristorante di alto livello la pastella è talmente buona che rende l’olio un elisir di onnipotenza. L’uovo è invece una questione più complicata: come potete vedere alle diverse parti dell’uovo sono successe cose diverse: l’albume è spumoso, il tuorlo è cremoso. Le uova, non so se si è capito, sono motivo di erezione mentale per Davide Scabin:  negli anni ha cercato di mettere a fuoco tutte le loro magnificenti proprietà e soprattutto ha tentato di smolecolarle, provando a vedere cosa potevano diventare se non, per l’appunto, strabenedette uova.

scarpetta

PANE CON ACCIUGHE ELETTO DI POLVERE DI PEPERONI

Siamo tutti d’accordo sul fatto che pane, acciughe e peperoni, nel momento in cui vengono a contatto con l’alta cucina non sono più solo pane, acciughe e peperoni. Innanzitutto perché il peperone rosso è stato ridotto a farina, in modi e tempi che gli esseri umani non sono degni di conoscere. In secondo luogo perché le acciughe (che io detesto, come è noto da tutti coloro che mi conoscono) sono le più carnose e saporite che si possano mangiare sul pianeta. I camerieri, che ormai hanno preso a trattarci come pigmei analfabeti e ci spiegano come stare al mondo (in assoluta buona fede: in questo posto è vero che noi non sappiamo assolutamente stare al mondo) spiegano che il modo per mangiare questo piatto è prendere un pezzo di pane e acciughe, fare scarpetta su metà del piatto e poi mangiarla. Al medesimo modo bisogna ripetere la cosa con il secondo pezzo di pane con l’altra metà di polvere di peperone.

Si potrebbe polemizzare sul fatto che si faccia pagare così tanto un piatto che prevede due pezzi di pane, due acciughe e la polvere di un peperone. Voglio pensare che non sia necessario fare qui un pippone sul fatto che la maestria culinaria e l’esperienza, nonché il talento, siano cose che si pagano: lo sappiamo tutti, no? Ciò che forse però va specificato è che queste pietanze hanno una potenza gustativa enorme ed è particolarmente soddisfacente anche uno solo di questi piatti non dico per saziare una persona, ma sicuramente per gratificarla ampiamente.

pesce

BRANZINO IN CROSTA CON ASPARAGI AFFILATI

Non mi ricordo, francamente, da cosa era formata la crosta ma aveva un pungente sapore di mare, con un tono di consistenza farinosa. Forse alghe, non mi ricordo. Mi ricordo che la crosta era un po’ ostile e non era male che lo fosse: perché una volta che spaccavi la crosta ostile, dentro il pesce era inaspettatamente delicato ed era una bella sensazione, il sollievo che provavi a passare dall’ostilità alla delicatezza. Gli asparagi erano crudi, altra cosa nuova, e sapevano di prato primaverile.

dolce 2

FUSIONE A FREDDO

Unico dolce di cui mi ricordo il nome da menu. Tutti gli altri erano dei fake, lo ammetto.

Questa fusione a freddo nasce come mix di meringhine, frutta e fiori amari adagiati su un disco di lime che viene fatto sciogliere versando sul momento nel piatto dell’acqua frizzante e lasciando che il piatto si ultimi. Nel momento in cui lo mangi, spezzi definitivamente il disco e lo mischi alla frutta, ai fiori e, se ti piace, alle meringhe. Il tutto è molto gelido, amaro e duro e non so come spiegare oltremodo che questo è un ottimo modo di sperimentare come le cose gelide, dure e amare possano essere buonissime.

Sopra questa montagna di cose gelide, amare e dure c’è , sorpresa, la cosa più morbida e dolce (nonché calda) che si possa immaginare: un tuorlo d’uovo marinato nello zucchero e reso duro che viene svuotato e riempito di crema chantilly.

Dissertazione finale

Quelli che vi ho presentato sono solo alcuni dei piatti che abbiamo mangiato: in tutto credo che siano stati 15 o 16, tralasciando i piccoli regali (stuzzichini, finger food, e similaria) arrivati in vari momenti della cena.

È stata un’esperienza diversa? sì, e piuttosto speciale, per vari motivi. Al di là del cibo, una cena del genere soddisfa un altro tipo di gratificazione di cui l’essere umano sembra aver sviluppato la necessità: l’osservazione compulsiva da parte dell’esterno di cui abbiamo bisogno, ivi gratificato da uno squadrone di camerieri che si ricordano di te e di quello che potresti volere ogni singolo momento.

Non eravamo in forma quando siamo entrati ma lo eravamo alla fine. L’ultima cosa che abbiamo fatto è stato prendere il palloncino con l’elio e usarlo per fare vocine sceme: non ha niente a che, fare, tutto questo, con l’alimentazione, ma con il nutrimento sì.

Nella vita ci vuole culo

“Sii gentile con le tue ginocchia,
quando saranno partite ti mancheranno.”

(da The Big Kahuna, monologo finale)

“Puoi venire qui? Mi sono fatta male”. Il mio ginocchio destro ha dato forfait al termine di una mattinata bellissima, sotto un sole caldo e ossigenante, su una montagna velata dalla prima vera neve di questo inverno. Ho semplicemente preso una curva male sciando, sono volata in aria e le mie gambe sono roteate: lo sci destro si è piantato a terra ed è ricaduto verso la gamba sinistra, costringendo il ginocchio a fare altrettanto e provocando un sonoro (incredibile, quanto sia stato netto e risonante) STAC.

“Puoi venire qui? Mi sono fatta male”. È cominciata così, con un fidanzato che si carica i miei sci e io che ridiscendo una montagna su un piede solo (sì, sono paranoica, avevo paura che l’assicurazione non coprisse davvero il soccorso). È cominciata con un primo medico francese che mi munisce di coperta e mi fa le lastre, mentre il pregevole fidanzato prende a male parole i tizi del noleggio sci (perché lo sci si doveva staccare ma a volte non succede, pare). È cominciata in francese, “pas de fractures mais il y a un problème au ligament croisé anterieur” , l’osso non è rotto ma il crociato ha un problemaio dico ok, rimango sotto la coperta. Con il passare delle ore e dei giorni farà, nell’ordine: un po’ male-male-non dormo-malissimo-meno male-ancora meno male. A quel punto il fidanzato dichiara che il medico francese è quello che in gergo scientifico viene definito “un minchia” e poi non ci ha neanche lasciato le lastre e basta, si torna a casa.

Ora, la faccenda inizia qui: Perché viviamo in un paese di morti per parto, gravidanze tragiche, bambine che muoiono in sala operatoria perché l’anestesita è al bar e il prossimo pezzo della storia è quello che vuole darci speranza in questo mondo.

Su consiglio di voci genitoriali ci rechiamo al pronto soccorso di una città della bassa Val Susa di cui non diciamo il nome ma chiameremo a caso Dodopoli, in onore del mio gatto che ne è un pregiato residente e si chiama Dodo. Dell’ospedale in questione si dice spesso il peggio: a me hanno fatto questo, a me duemila ore di attesa, a me hanno tranciato un orecchio durante una visita urologica. Io ci sono nata in quell’ospedale e credo di essermici trovata bene: beh, per quello che mi dicono i miei, ovvio. Comunque: noi siamo lì perché pare che ortopedia sia diretta da uno super bravo, quindi eccoci al pronto soccorso di Dodopoli.

Il pregevole fidanzato parte così: “rassegnati che qui ci rimaniamo dodici ore minimo”. Io tanto non ho niente da fare, ho il kindle in borsa e sono circondata da una quantità inverosimile di simpatici vecchietti che sorridono quando mi vedono passare accanto a loro saltellando su una gamba sola. “Guardala come salta! Eheheh!”.

Accettazione: 5 minuti netti. Io barcollo ma non mollo fino allo sportello, prendono i miei dati e vado al triage in un secondo. Al triage c’è una tipa bionda che mi consiglia una sedia a rotelle, prende i dati, è gentilissima e fa mille domande: conclude con “Tra un attimo la chiamiamo per la visita”. Usciamo e il fidanzato dice: “Ora tranquilla che ci chiamano fra un’eternità”. Lo capisco e so che l’esperienza gli dà ragione: l’ultima volta che sono stata in quel posto ci ho fatto la muffa, su una di quelle sedie. Dopo poco tempo, però, sento il mio nome. Adesso viene la parte bella: vengo accolta da due medici giovani e baldanzosi che mi visitano. Prima uno, procede con tutte le manipolazioni e le domande da anamnesi possibili e da il suo parere. Il legamento è leso. Non vuole però essere arrogante e chiede al secondo di intervenire: altre manovre, prove di movimento, come sono i tessuti? che rumore ha fatto al momento del trauma? ma “stac” o “spop”? Ok, si rivesta. Sì, al 99% il mio legamento è leso, lo dice anche lui. Mi spiega cosa devo fare per rimetterlo in sesto e perché: mi dice di muoverlo il più possibile e che devo camminarci sopra, che sono giovane e faccio sport e devo rimetterlo in moto. Mi fanno fare nuovamente i raggi, perché il certificato del medico francese a loro non basta. Una grande scrupolosità, chi se lo aspettava dopo le voci che ci sono arrivate. 

Per i raggi aspettiamo pochissimo, poi mi fanno tornare dagli ortopedici. I raggi sono ok, ma il medico numero uno mi ricontrolla la gamba e opta per un bendaggio allo zinco anti infiammatorio. Mille raccomandazioni e poi via. E parlano tanto male dell’ospedale di Dodopoli! E parlano tanto male della sanità! Viva gli ortopedici! Viva i miei ginocchini!

Seguo i consigli dei medici del pronto soccorso: tendo la gamba, piego la gamba, tengo il bendaggio, cammino, faccio ginnastica. In un mese cammino di nuovo, con sorpresa di tutti. Provo meno dolore. Il versamento e gli ematomi passano quasi del tutto. Qui però attenzione, arriva la parte che ti mette di malumore, tipo il finale di Nynphomaniac ma senza tentativo di stupro e pistole, fortunatamente (SPOILER! Lo so, scusate).

Visita ortopedica post risonanza magnetica. Arrivo con 40 e più immagini del mio ginocchio sezionato ed un referto dell’ospedale in cui ho fatto la risonanza di cui sopra che dice che il mio legamento è leso totalmente e che le ossa sono infiammate causa trauma. Mi aspetto che mi dicano cosa si fa a questo punto, come si presenta la lesione, insomma, cosa dovrò fare con questo benedetto ginocchio sminchio.

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Questo ginocchio non è il mio. L’ho preso a caso dall’internet. Serve a spiegare cosa succede quando si rompe un crociato anteriore. Una cosa così, ecco.

“Nazzareni, entri”. Entro. Ortopedico sconosciuto, all’ospedale ti assegnano quello che c’è. Entro e nella stanza ci sono 4 persone (due medici e due infermieri) che parlano di cose loro. Attendo. Un minuto. Due. Al terzo minuto si degnano di guardarmi e quello che sarebbe il mio medico prende in mano il referto della risonanza e la ricevuta del ticket pagato (15,90 se vogliamo essere precisi).

Niente ciao, niente buongiorno.

“Si sieda”.

“Buongiorno, sì, ecco.”

“A quando risale il trauma?” (c’è scritto su ben tre referti medici, by the way)

“Sono caduta il 3 gennaio, con gli sci, in Fr…”

“Sì,sì”.

Suona il telefono cellulare del medico.

“Sì? Pronto? Aaah, ciao, ciao! Sì! Sì? Certo, dài, scendo un attimo!”

Si alza, dice “scusate arrivo”, infila la porta e va. Mentre esce un’infermiera gli dice, in un tono che non traduco in intenzione: “Non ce ne sono altri, è l’ultima della mattinata”.

Aspettiamo.

Aspettiamo.

Aspettiamo.

Mentre aspettiamo, però, non ci annoiamo: nello studio di fianco è cominciata una lite. Da quello che capisco un uomo sta facendo una visita post operatoria e ciò che il medico gli sta dicendo contraddice quello che il chirurgo gli ha precedentemente consigliato di fare. L’uomo ha un tono medio basso, il medico no.

“No, io non capisco cosa mi sta dicendo, perché il chirurgo…”

“Ma il chirurgo faccia e dica il cazzo che gli pare! Io le dico che se lei fa così le viene un infezione!”

“Scusi ma non capisco…”

“No, e allora se ne vada! Perché è venuto qui se non mi ascolta?” (decibel illimitati, a questo punto)

“No, ma io…cioè non si arrabbi con me…”

“Ma io mi incazzo invece!”

sbattere di porte.

L’ortopedico freak fa irruzione nella nostra stanza: io e mia madre facciamo le facce di chi non ha AFFATTO ascoltato tutto ciò che è appena stato detto (o meglio, urlato).

“Voi avete finito la visita?” ha una faccia, giuro, da ubriacone molesto.

Mia madre e io, in simultanea: no, eh, è che il dottore è uscito e…ecco…

Abbiamo entrambe l’espressione di chi teme di essere abbattuto con un’ascia.

Beh, rientra il mio ortopedico, brandendo un libretto di quelli della macchina, con su scritto Fiat Panda. Quindi è stato via un tempo infinito per recuperare i cazzi suoi. Ok.

“Si sdrai”.

Mi sdraio. Si avvicina, mi muove in ginocchio con distrazione, poi l’altro. Poi mi fa sollevare una gamba. Poi l’altra.

“I muscoli sono un po’ molli”

“Eh, sì. lo so, non sto facendo sport…” (perché sai, se hai letto il referto, c’è scritto “legamento leso”)

Si risiede. Dà prova di ampia capacità di comprensione scritta sentenziando che il legamento crociato è leso e che le ossa sono infiammate (Gesù, sa leggere! che bravo!). Sorpresa: non si fila minimamente le immagini del mio ginocchio. Non guarda gli altri referti. Non guarda  i raggi. 

“Deve tenere il tutore un mese e muovere la gamba il meno possibile. Se cammina, con le stampelle. Perché i muscoli sono deboli e devono avere il tempo di ritonificarsi.”

Ora, io ho studiato lettere e faccio la giornalista e sì, non sono un medico ma so superare un test di logica. Se un muscolo sta fermo non si tonifica: si atrofizza. Inoltre da un mese la mia deambulazione non fa che migliorare e il dolore diminuisce e non c’è motivo nel creato per cui possa io ritenere sensato immobilizzare una gamba così, tanto per, perché vediamo cosa accade.

“…Poi ritorna fra un mese per un controllo e tra tre mesi vediamo una nuova risonanza. Vediamo se è cambiato qualcosa e se non è cambiato niente, operiamo.”

Mi sfugge qualcosa: chiunque mi abbia visto finora e abbia una laurea in medicina mi ha detto che i legamenti non si ricostruiscono da soli. Ed il mio legamento, l’ho visto in lastra, è bello che defunto.

“Quindi, ehm” chiedo io “c’è la possibilità che la lesione si sistemi da sola?”

“No”.

Ora: se fai il mio mestiere, in occasioni del genere succede che una vocina arrogante dentro di te chiede di essere liberata per poter dire: “io sono una giornalista. Tu mi stai dicendo solo cazzate, mi hai guardato a malapena in faccia e adesso mi chiedi di stare immobile per settimane, poi mi dici di tornare da te e solo dopo fare dei nuovi esami: cosa pensi di scoprire la prossima volta che mi vedrai? Non hai guardato le analisi che ho portato, sei uscito lasciandomi sola per un tempo indefinito e non mi hai fatto nessuna domanda su cosa è successo alla mia gamba. Mi stai fregando, sei un incompetente e io lo racconterò a tutti”. Però non lo fai perché si chiama “minacciare la gente” e perché è arrogante, appunto, tremendamente arrogante. Però pensi al fatto che c’è un sacco di gente che non si fa domande, o che semplicemente è abituata all’idea del medico onnisciente e onnipotente e quella è gente che viene fottuta dall’incompetenza.

Torno a casa avvilita, perché non ho avuto risposte. Non mi sono state fatte domande e io non ne ho fatte perché avevo paura di sentire altre cazzate da una persona che non solo non mi ha trasmesso l’impressione di avere cura di me, ma mi ha dato l’impressione di volersi liberare di me. Mi è venuta in mente l’infermiera che gli sussurrava “questa è l’ultima della mattinata” ed ho pensato che sì, in effeti se io me ne vado presto lui fa pausa pranzo prima. Un pensiero cattivo? Forse.

Questa vicenda, che purtroppo non è ancora finita, mi ha fatto riflettere su un tot di cose:

  • Che criticare a prescindere non è giusto: parlare male dell’ospedale di Dodopoli non è giusto perché per mia fortuna al pronto soccorso sono incappata in due giovani medici competenti e scrupolosi che mi hanno indotto a pensare che il mio ginocchio per loro fosse importante come se fosse stato uno dei loro (in un mondo ideale, questa è l’impressione che dovrebbe dare un buon medico). Dire che una struttura è incompetente peggiora le cose per le persone volenterose che ci lavorano dentro a fianco di alcuni veri cani, loro malgrado.
  • La sanità pubblica finora non mi aveva deluso: posso sicuramente parlarne bene, perché a 16 anni ho sofferto di disturbi alimentari, in anni in cui i medici di famiglia bollavano la cosa ancora come “capricci adolescenziali” e, sostanzialmente, venivi lasciata fottere tra le tue “seghe mentali”. Beh, in quel frangente io ho avuto un dietologo con due palle così, un fisiatra che si ricordava a memoria le cartelle di tutte le sue pazienti e una psichiatra che si è sbattuta per farmi guarire con sedute oltre ogni orario previsto e un fantastiliardo di telefonate per aiutarmi, con consulti ad altri professionisti e via dicendo. Erano medici della mutua. Sono ufficialmente, platealmente o orgogliosamente viva, ora, anche grazie alla sanità pubblica.
  • L’ortopedico di oggi era indubbiamente un cazzone con 30 anni e più di professione sulle spalle, annoiato e incompetente. Era uno di quelli che danneggia la gente. Ho tremato al pensiero che come lui potesse esserci qualcuno in sala operatoria, ad aprirmi in due il ginocchio con la stessa noncuranza con cui ogni mio esame medico e ogni referto oggi è stato platealmente ignorato in cambio di “si muova poco”. Ma io sono uscita da quella stanza e chiederò un altro parere e in tutto questo, chi subirà un danno? lo subiranno i miei due gagliardi e volenterosi ortopedici del pronto soccorso, che hanno passato mezz’ora a girarmi il polpaccio in ascolto di ogni più piccolo rumorino o attrito sospetto. Perché gli sfortunati pazienti dell’incompetente dottoruncolo di oggi andranno in giro a dire che “l’ospedale di Dodopoli fa schifo” (e vogliamo dargli tutto questo torto? voi ci tornereste dopo una brutta esperienza?). La reputazione del posto in cui loro si impegnano ogni giorno verrà danneggiata e, allo stesso modo, verranno danneggiati loro.

 

Tutto sommato

Le hanno puntato un’arma alla tempia e le hanno ordinato di inserire il codice di apertura delle porte. Poi l’hanno obbligata a salire con loro e solo quando si sono trovati nella redazione di Charlie Hebdo si è potuta mettere in salvo dietro a una scrivania: l’hanno lasciata andare. Poi hanno aperto il fuoco ed hanno ucciso 12 persone: giornalisti, editorialisti, collaboratori. Uscendo, hanno ucciso poliziotti. Scappando, hanno ucciso ostaggi in un supermercato e altri poliziotti.

Il 7 gennaio, poco dopo che Corinne Rey ebbe digitato il codice d’apertura, le schiene di tutto il mondo – ma soprattutto quelle europee – sarebbero state percorse dal brivido del grave presentimento: non era un anno che cominciava bene, questo 2015, con la morte cruenta di fumettisti che indossavano le camicie sotto pullover colorati come spesso fanno i genitori di quelli che sono nati con me. I 30enni di oggi hanno padri con gli occhiali e i capelli sale pepe, uomini di mezza età che sono cresciuti con Schulz e la satira fumettistica, proprio come Charbonnier e Cabut. Insomma, quella gente lì che non ha fatto le guerre mondiali e si è vissuta il Maggio Francese, gente che tutto pensava meno che di morire trivellata da un kalashnikov.

Loro un po’ sì, veramente. Gli avevano incendiato la sede qualche anno prima e non collezionavano ammiratori tra gli estremisti e i fanatici religiosi, e lo sapevano. Ma se lo aspettavano? Non credo. Non se lo aspettavano loro e non se lo aspettava Parigi, che era talmente poco pronta che ha reagito con una dimostrazione di incompetenza e di falle nella sicurezza che gli sarebbero costate care sul piano “opinione pubblica” e non solo: tutti devono aver pensato, “guarda quanto è facile far casino in quella città”.

E io? io ero a casa, ho sentito la notizia e non ne ho scritto. Io che ho scritto sempre. Già ne scrivevano tutti e non c’erano che matite disegnate sulle bacheche facebook di chiunque e una decina di disegni di Bansky che in realtà aveva fatto un’illustrazione sola, però Bansky tira. E io sono qui e io sono Charlie, e se lo meritavano, e se la sono cercata, e sono dei martiri. Tutti con una propria granitica risposta e una pallottola da mandare in qualche direzione. Lì abbiamo scoperto tutti quanti che la sapevamo lunga sugli attentati, e gli attentatori, e come sarebbe stato giusto reagire, e le frontiere, e bla bla bla. Tutti bravissimi, sarebbe stato un anno di bravissimi e intelliggentissimi strateghi solo che in quel momento non lo sapevamo ancora. Più del solito, intendo. Io in tutto questo mi ambientavo in un lavoro strano e che mi calzava scomodo nel quale però conoscevo persone molto belle e mi adagiavo in una quotidianità buffa e fatta di troppe cose a cui pensare. Charlie Hebdo era un motivo per organizzare il 21 Marzo antirazzista a Torino e parlare del tema razzismo e discriminazione in modo diverso; però passavano i giorni e il fatto in sé diventava meno pauroso, passavano i mesi ed era sempre più innocuo.

Poi è arrivato Marzo e c’è stato l’attentato al Museo del Bardo a Tunisi. Altri morti. Io a Tunisi c’ero stata durante uno scambio culturale ai tempi del Liceo. Paolo aveva visitato la Tunisia appena il Natale prima, imparando ad amare qualcosa che non sapeva sarebbe stato brutalmente stuprato e mutilato così poco tempo dopo.  Più volte. Il giorno in cui le salme dei dipendenti del Comune di Torino sono tornate a casa io ero in Piazza Palazzo di Città, proprio dove sarebbero state portate, a coordinare il 21 Marzo. Faceva freddo e ci hanno mandato via prima che le bare arrivassero, avevamo organizzato un evento festoso per la Giornata Mondiale Contro il Razzismo e stavano arrivando i corpi di cittadini morti per mano degli estremisti islamici. Strideva assai. Non era ancora molto chiaro quanto e se ci stessimo spaventando, anche se organizzare un viaggio non era più una cosa che progettavamo con tranquillità assoluta: però eravamo ancora incolumi. Eravamo ancora salvi. Per me, solo per me, dalla sera dopo sarebbe cominciato un mese strano, traumatico, rivoluzionario, decisivo ed importante e non mi sarei preoccupata dei terroristi né di morire per mano loro per un bel po’.

Tre mesi dopo cadde la prima sicurezza che tutti abbiamo dal 2001, ovvero: “Se hanno colpito lì, è il posto migliore in cui andare perché sicuro non vanno a colpire di nuovo nello stesso posto”. Questa volta arrivano dal mare: con una mossa da kolossal scendono nell’acqua bassa e, ancora coi piedi a bagno, cominciano a sparare alla gente che prende il sole sulla spiaggia di Sousse. Dove? in Tunisia. E la regola del “se hanno colpito qui allora…” eccetera? Non esiste più. Tedeschi ciccioni coi corpi aperti e l’immagine di un uomo in nero che ciondola come annoiato sul lungomare del posto più turistico e detestabile della nazione: incede mirando prima qua, poi là. Gente che si nasconde dietro i muretti.

TUNISIA-UNREST-TOURISM

Poi l’uomo in nero viene colpito e la sua testa aperta in due finisce in mondovisione: a quel punto, forse, cominciamo ad avere paura. Questa gente che mette in conto la propria morte al servizio della genesi del terrore in modo così sfacciatamente noncurante ci fa pensare di essere invincibile. Non li puoi minacciare, morire è parte integrante del loro progetto. Ricomincia la tiritera mediatica: parliamo parliamo e parliamo, sui social, con gli amici, e io continuo a stare zitta, non so niente, non voglio dire niente, ho molta paura a dire qualcosa.  Ho avuto un nonno fascista, ho avuto un fidanzato di estrema destra, so che la testa delle persone può essere come un tubero incandescente: dentro può avere un filone di oscurità che forse non è del tutto marcio, però è di sicuro una carie che non estirpi. E non sai chi ce l’ha e chi no. Il mio pensiero va spesso a Corinne Rey, che ha digitato il codice e ci avrà ben riflettuto, per quanto sia possibile riflettere con un mitra alla tempia. Se mi rifiuto mi uccidono. Però almeno gli altri sono salvi. E per quanto? un uomo con un’arma trova il modo di aprire una porta. E se lo digito sono salva io. Per quanto? finché non saliamo. E poi? poi magari mi ammazzano lo stesso. Sto decidendo la sorte di tutti i miei amici e colleghi? Forse sì. Forse no. Penso a cosa debba essere vivere pensando che potrebbe capitarti di dover prendere una decisione del genere. Intanto è giugno, la mia vita è molto cambiata, non è stato facile – no, anzi: è stato fottutamente difficile – ma per una volta è successo l’inimmaginabile, si è avverato un desiderio. Adesso lo coltivo, mi ci addormento insieme la sera e mi ci sveglio la mattina. Ci parlo al telefono e lo annaffio di gesti. Ci tengo, è la cosa bella sotto la campana di vetro in un mondo che ci si sta distruggendo attorno.

Comunque non è finita perché, come si dice nei film? Parigi è sempre Parigi. È il 13 novembre e io sono al pub a bere con tutte le mie amiche. Festeggiamo il fatto che a mezzanotte compirò 29 anni ma soprattutto festeggiamo il fatto che siamo riuscite a vederci tutte in una stessa sera, con un sacco di birra e dei motivi per essere contente. Un nuovo lavoro, per me, per qualche altra. Sembriamo in procinto di uscire dalla fase dell’incertezza terrificante e immobilizzante, ci siamo impegnate tanto per uscire dalla crisi: la nostra, non quella economica. Ridiamo, beviamo e ascoltiamo musica. Anche a Parigi ridono, bevono e ascoltano musica: ma all’improvviso lì dal nulla (non è spaventoso questo? Che non esista nella testa di nessuno di noi che una cosa del genere si verifichi davvero? È questo il significato di “dal nulla”?) entrano delle persone e cominciano a sparare con i kalashnikov. E tu, che hai 30 anni e sei ad un concerto, pensi che sia parte dello spettacolo. LO SPET-TA-CO-LO. Ad un tratto capisco, mentre leggiamo poco dopo la mezzanotte le news su Twitter, con le nostre teste ancora intere e i cervelli al loro interno ancora intonsi: capisco che il vero orrore è nel fatto che una cosa così la si concepisca solo come parto di una finzione grottesca. Bello quando sono entrati i tizi armati… poi boh, il concerto un po’ ripetitivo. E invece no, stai proprio stringendo il corpo del tuo ragazzo, che è dilaniato in due dai proiettili. Ma è il mio ragazzo. Noi vogliamo solo comprare casa e avere un contratto a tempo indeterminato. La mia vicina di casa porta il velo e mi prepara i dolci al miele. Gli metti una mano in un punto dove ti sembra sanguini di più, poi sollevi gli occhi e ti stanno puntando un’arma contro. Non sai perché, ma lo stanno facendo. Ragazzi, non siamo in guerra, cosa sta capitando? Ma a un tratto hai una sola certezza, ancora uno o due secondi e sei morto anche tu. Forse userai il corpo tuo fidanzato per parare i colpi. Forse ti parerai insensatamente davanti a lui, per proteggerlo.

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Ecco, è successo questo, mentre io bevevo la mia media scura e ascoltavo i Nickelback pensando: mi piacciono abbastanza, i Nickelback. Non suona come una bestemmia? Beh, è stato anche l’anno dei pensieri innocentemente orrendi, di cui ci siamo un po’ vergognati.

Da allora no, è stato mostruosamente chiaro che non era un anno buono, anzi, era un anno orrendo. Era l’orrore, era “due volte Parigi”. Era “due volte la Tunisia” e in un attimo è stato “in vacanza avevamo progettato di andare lì ma non possiamo più, non è il caso“. Tre settimane dopo ho preso 4 aerei in 4 giorni per una conferenza a Budapest, passando per Charles de Gaulle. Per tutte le 4 volte mi ha sfiorato il pensiero che potesse succedermi qualcosa e, subito dopo, l’urgenza del dover scacciare il pensiero. Non puoi fermarti. Nessuno può fermarsi. Lo ripetono in continuazione sui giornali, alla televisione, sui social, e allora perché non siamo andati in vacanza in Tunisia a dicembre come avevamo progettato?

In questo 2015 mostruoso, su queste vicende io non ho mai scritto una parola se non le ultim’ore su Parigi che dovevo scrivere per il giornale. Non ho mai espresso la mia opinione fino a questo momento e anche adesso, a ben vedere, non sto esprimendo nessuna opinione. Credo che le mie idee in questo frangente non contino minimamente. Il 2015 è stato l’anno delle foto di corpi e sangue, di piedi nudi ritorti sulla sabbia di una spiaggia, di persone che si sono finte morte accogliendo in bocca il sangue caldo che colava dal corpo di qualcuno che gli era caduto addosso e che ora, a terra, sulla pista di un locale, era diventato lo scudo morto che garantiva la salvezza di qualcun’altro. Le brutture sono arrivate, eccole qui. Il piccolo corpo di un bambino in maglia rossa a testa in giù su un bagnasciuga è affar nostro in un modo che non avevamo mai considerato prima.

E per contro, per me è stato l’anno del calore, dei profumi, delle gite, delle canzoni in macchina, della novità delle novità che primeggia su qualunque altra novità, insomma, io avevo qualcosa di nuovo da proteggere. Qualcosa di molto importante solo e unicamente per me, a cui il resto del mondo – giustamente immagino – non importava. Avevo qualcosa da proteggere su un pianeta ostile e che oramai sputa fuoco a destra e a manca, soprattutto sulle cose belle e serene.

Immagino che l’unica alternativa sia continuare a proteggere i paradisi che abbiamo, finché sarà possibile, e continuare a stare in silenzio per il resto del tempo (perché ogni parola detta su ogni bruttura, mi spiace, ma è stata totalmente e pateticamente inutile per chiunque).

Buon 2016.

 

 

Alfred Blaschko, che ha visto l’origami

La pelle che si stende liscia e tesa come la crema che si forma sul latte, il sottile lenzuolo che racchiude il tuo corpo e che io liscio i giorni e le notti con i palmi delle mie mani, solcando ogni buca e segnando ogni curva, quella pelle è un origami steso.

C’è stato un tempo in cui tu non eri quello che sei ma eri solo l’embrione di te stesso. Eri un’idea, tutto perfetto nello stato platonico del tuo prima. Il big bang prima del big bang, senza tempo e senza luce, un punto di singolarità tutto da scoprire. Quando eri embrione eri piccolo e inconsapevolmente felice e infelice, non-ancora-vivo-ma un-po’-sì.

Poi sei passato da embrione a feto: ti sono venute le mani, i piedi, gli occhi, i capelli, ecco, e poi l’apoptosi ti ha dato le dita, le piccole cellule che tenevano insieme il tuo corpo si sono in parte suicidate e sono nate delle fessure: la bocca, le orecchie, anche le palpebre. Come ti sembra normale spalancare gli occhi, ora. Sai che puoi farlo perché un tempo quell’embrione ha programmato che una parte di te si lasciasse morire? Non è una cosa strana da dire e da pensare?

Allora ecco a te un’altra cosa strana da pensare: l’embrione che eri, era un origami. Tu sei un origami: una superficie stesa che un tempo era piegata su se stessa, contratta, una stellina di neutroni piena zeppa di vita da svolgere e srotolare. Lo ha scoperto una sacco di tempo fa un tizio che si chiamava Alfred Blaschko ed era un dermatologo. Ad inizio Novecento spiegò alla comunità medica che tutti gli esseri umani erano completamente ricoperti di linee invisibili che altro non erano che lo schema con il quale le cellule epidermiche dell’embrione si distribuiscono con la crescita. Le pieghe dell’origami. Sei tu, prima di tutte le cose. Quando eri una tabula rasa di sogni tutti da inventare, tutti da perdere e incendiare in un falò di aspettative perdute; quando eri tutti gli orgasmi della tua vita racchiusi in una capocchia di spillo. Non ti ricordi? Certo, come potresti? non avevi un passato né un futuro, non eri neppure memoria corporea.

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Linee di Blaschko, rappresentazione tipica

Non puoi vederle ma le hai pure tu, le linee di Blashko. Qualcuno nel mondo può vedere le proprie: succede se si è colpiti da alcune patologie particolari, come il Lupus, per dirne una (il Lupus è quella malattia che in ogni puntata del Dott. House ad un certo punto qualcuno dice “potrebbe essere Lupus“, e invece poi non è mai Lupus). Tu non ce l’hai e infatti la tua pelle è perfetta da vedere, ma il nocciolo duro di quello che eri e sei rimane. E le linee che segnano l’embrione che eri, se non si possono vedere, si possono immaginare. Io le posso intuire, tra le tue spalle, che si muovono lente su di te ad ogni movimento.

Allora senti cos’ho pensato: è tutta una linea di Blashko. Ogni cosa che accade è il parto di una linea diversa. È tutto un immergersi e fondersi del “noi stessi sviluppato” con il “noi-stessi degli esordi”. Ci sono stati i primi sette secondi del tuo big bang che hanno definito quello che eri, sei e sarai e tu te li porti dietro volente o nolente, questi sette secondi. Essi contengono ogni cosa che ti distingue da qualsiasi altra persona: contengono i tuoi desideri più intensi, le tue vere e uniche abilità, la tua forza più autentica.La tua sopravvivenza e la tua auto distruzione. Il vero te è lì. Nessuno di noi dovrebbe avere paura che il male porti alla vista la mappa geografica del nostro Io, qualora capitasse. Ogni violenza che ci si abbatte addosso la fa venire allo scoperto, ne fa scoprire le curve, le ampiezze, le convessità. Gli angoli che ci rappresentano. Che ti rappresentano. Non devi aver paura di perderti, anche se la vita e la fisiologia delle cose hanno fatto sì che la tua essenza si stiracchiasse e stendesse come pasta frolla divenendo sottile, poi sottilissima e poi invisibile. Sei ancora lì, anche se pensi di aver accantonato pezzi di te. Siamo ancora tutti lì, a diventare le coperte gentili dei nostri sistemi nervosi.

Da embrione sei diventato feto, poi bambino, poi ragazzo, poi uomo. E adesso che sei il lenzuolo steso e liscio che la sera tardi si agita sul divano, cosa è rimasto dell’embrione che eri?

Non temere: tutto.

ANF, PUFF, PANT.

Come dire, che qui non ci si riesce a fermare.

Volontariamente, consapevolmente, insensatamente ma senza alcun pensiero al rimpianto mi sono costruita una vita che necessiterebbe l’uso di cocaina in grandi quantità ma la cocaina costa e quindi picchissime. Ormai totalmente piegata al nomadismo-pendolarismo, viaggio con gli averi sparsi ai quattro venti (by the way: ma la mia gonna nera con la fibbia dove sta?) tra tre città le quali presentano le seguenti caratteristiche;

-la prima è grande, è bella ma ci vado a fare un lavoro che detesto;

-la seconda è media, umanamente gradevole anche se urbanisticamente detestabile ma ci vado a fare il lavoro che adoro;

-la terza beh, è piccola e lontana ma ci sta qualcuno che amo quindi ha anche lei il suo.

Manco a dirlo non distano una dall’altra cinque minuti ma tre quarti d’ora, all’anima, e la borsa del computer pesa. E giro con le maglie con le macchie di cibo, ma va bene anche quello.

Ma parliamo di cose serie, ovvero il numero di lavori contemporanei che un essere umano può fare. Per ora siamo a due e mezzo, laddove il mezzo è quello che ti elargisce soldi più sporadici e fai la sera prima di darti al letto-barra-diletto. Uno dei due principali serve a darti il pane, l’altro pure e magari un giorno ti nutrirai solo di quello ma devi diventare ancora un po’ più brava. È quello per cui hai studiato, ci è voluto un po’ ma eccoti qui, a fare quello che, sostanzialmente, stai facendo anche in questo momento. E adesso? adesso ti tocca farlo. E ti tocca farlo bene. E farlo una volta per tutte. Tanto, dì la verità, non ti costa molto farlo bene, che per come ti piace ti dimentichi pure di fare pranzo. Hai i vestiti sudati, perché per farlo corri da una parte all’altra della provincia, ma alla fine i vestiti sono fatti per essere sporcati dalla vita, no?

Accumuli cose buone, momenti caldi e morbidi, una mano ti rimbocca le coperte mentre ti stai addormentando. Accumuli cose buone e fai una scoperta: un tempo avevi paura ad accumularne, di robe felici, perché pensavi che il mondo avrebbe reagito con una sorta di meccanismo di contrappasso e per ogni dolce fetta di bene e coccole di vita ti avrebbe inflitto un sciabolata di malignità. Invece forse no, e per una semplice ragione: ogni dolce fetta di bene e coccole di vita ti costa il doverti fare un culo così per guadagnartela.

Ah, ecco dove stava il trucco.

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copyright Chiara Bautista, as usual

Panama, ma non in senso geografico.

La prima domanda che mi ha fatto il venditore di cappelli di una delle innumerevoli bancarelle poste davanti agli scavi di Pompei è stata: “Italiana?”. Sì, sono italiana, signore dei cappelli. Ho caldo e mi sta andando la testa in fiamme, cosa che non succede mai perché ho una chioma nidiforme in testa e se li raccolgo bene i capelli mi proteggono ottimamente dal sole. Ma siamo a Pompei in un giorno del mese più caldo dell’estate più rovente degli ultimi anni, ho addosso la protezione 30, ho due bottiglie d’acqua nella borsa e sì, sono italiana, quindi capisco quando parli e non mi fare un prezzo indecente per quel cappello bianco, ok?

“Per bella signorina italiana 20 euro”.

Grazie, signore dei cappelli. Per la giapponese dopo di me hai fatto 35 euro, guarda che ti ho sentito.

Con in testa il mio nuovo Panama raggiungo il prode cavaliere mollato a far la fila sotto il caldo – e senza un goccio d’acqua – e ci accingiamo, copricapo-dotati, a darci dentro con la prima esperienza ai limiti della sopravvivenza umana di quelle vacanze.

Io dico solo, che senza il benedetto cappello non sarei sopravvissuta. Dalle undici alle quattro di quel primo martedì abbiamo trottato per le terrose e aride vie di una Pompei più salvaguardata di quanto uno si aspetti con il solo ausilio di un vestiario evanescente, una roboante determinazione alla visita approfondita e le periodiche allucinazioni a stampo divinatorio di santi e di Madonne che ci sussurravano che ce l’avremmo fatta. Ogni venti metri una fontana, squisita novità pompeiana, e turisti giapponesi che ci si tuffavano sotto. Bambini che venivano refrigerati ripetutamente. Io, un paio di lavaggi integrali della chioma.

Poi, dunque, quali altre prodezze. Si è ritrovato catapultato a Napoli, sballottato tra le valigie e gli zaini, stropicciato insieme al giornale sotto il mio braccio. È rimasto sette ore infilato tra un sedile e il sudicio finestrino dell’aliscafo, rimanendo comunque intonso e bianco. Tra le mie sudatissime mani è sceso a Lipari, pronto per salire su una macchina verde metallizzata e giungere, dopo venti minuti di stradine stradette straducole salite discese asfalto sassi sterrato cemento poi ancora sali poi scendi poi traballa sul terreno impervio, dicevo per giungere a una casa fatta a rettangolo basso in mezzo al nulla: solo fichi d’India, sabbia, sassi e piante poggiate sul letto di un cratere vulcanico spento. Una ciotola di verde nel nulla e, sul bordo della ciotola, questo agriturismo pieno di gatti e di inaspettato colore. Un paradiso di uccellini e piatti di pasta infiniti, una cucina povera, stupefacente, pesce che alla fine ti esce dalle orecchie e comunque, a mezz’ora di passeggiata da lì, gli arancini più caldi e croccanti del mondo e le mie dita unte di olio che stringono il Panama, poverino.

Lì, sottoposto ad ulteriori angherie: divenuto seggiola per i gatti che ci si sedevano sopra, dimenticato su ogni sdraio e ogni amaca e poi recuperato ogni volta. Portato in testa da me, occasionalmente da qualcun’altro. Bagnato di pioggia temporalesca e imprevista, una pioggia rara per isole aspre come i limoni che partorisce la terra. Una pioggia che rimbalza su terra dura come la sua ostinazione a non cambiare, come i suoi abitanti dai visi bruni e mangiati dal vento, che sfioravo la lava e non la temono.

Poi vere torture, una dopo l’altra: oltre al sudore che colava dalla mia testa durante e dopo ogni maledettissima camminata in salita per tornare a piedi all’agriturismo, o durante le violente e rocambolesche discese in paese a ritmo di slavina, gli capitano la terra, la sabbia e la salsedine. In spiaggia, a raccogliere mare e crema solare, a essicare al sole e con un sasso dentro per evitare che volasse via. Poi portato sullo Stromboli, tre ore di camminata sulla schiena di questo sfogo cutaneo del mare, un bubbone sempre arrabbiato ma non troppo che ti manda a fuoco le caviglie appena ci poggi piede sopra, a ricordarti che è vivo e comanda lui – se per caso avessi dubbi sulla questione. Volato via più volte e rotolato sulla distesa di sabbia nera come inchiostro – sabbia mai toccata da mani umane o zampe animali, lieve e vergine come neve all’alba; comunque sia il cappello è sempre stato recuperato, anche in cima al vulcano, dove folate di zolfo e pietruzze ne hanno minacciato continuamente la sopravvivenza. Sempre più sporco, sempre più giallo, sempre più intoccabile, è stato infilato – sì, un Panama – arrotolato nel mio zaino per consentirmi la discesa nel buio con le mani libere: giù a fare surf sui sabbioni pieni di sassi, a tagliarmi i piedi.

Il giorno dopo liberato dallo zaino, tutto ancora stropicciato, a riposare come noi, esausti, shackerati come pomice eruttata dritta nel mare, a godere del silenzio della cima vulcanica coltivata, tra i miagolii dei gatti e il rumore di un getto d’acqua della vasca in giardino.  Poi una gita in barca, anzi due, facciamo tre, il vento è forte e lo tengo in basso perché non cada in acqua: mi serve ancora la sua protezione da un sole che non accenna a smettere se non un giorno in cui prendiamo tanta di quella pioggia che non distinguiamo l’acqua che ci bagna nel mare da quella che ci bagna dal cielo. Proviamo a rimanere a mollo, ma ci sono i fulmini e dobbiamo uscire. Piove ma non uso il cappello per coprirmi, è un cappello da sole, ho paura che il clima piovoso lo traumatizzi.

Poi è il penultimo giorno, lo faccio dondolare tra le mani tra le sale silenziose di un museo. Ci aspettavamo di nuovo brutto tempo e invece no, fa caldo, ci confortano solo i ventilatori in ogni sala. Poso il Panama, lo dimentico, torno indietro a prenderlo. Cambiamo edificio, lo lascio nel guardaroba, penso che non lo ritroverò e invece lo ritrovo. Come quando entro in un’edicola e per sfogliare i giornali lo poso su una pila di riviste, poi me ne vado: al ritorno mi accorgo che ho la fronte calda e mi rendo conto che non ho il cappello. “L’ho perso” “L’avrai posato da qualche parte” “Mi pare in edicola”… giro la testa e guarda un po’, senza accorgermene siamo proprio davanti ad essa. Entro ed è ancora sulla pila di riviste, dove l’avevo abbandonato come una disgraziata. “Ti ha chiamata”. Mi sa di sì. Ha dei poteri magici: quando lo lascio da qualche parte diventa invisibile e nessuno se lo prende, poi arrivo io e ridiventa visibile, così lo posso portare via.

Ultimo viaggio, ultima barca, ultima gita: salire su Vulcano, nell’Isola di Vulcano. Di nuovo portato su controvoglia, ma il sole è letale e le fumarole fanno salire un calore infernale: sono gialle e verdi, dei pazzi disperati ci camminano in mezzo nonostante sia pericoloso. Il cratere è a portata di piedi, ti ci potresti calare dentro ma non lo fai perché se ci provi svieni. La puzza di uovo marcio è incredibile, ti sfonda i capillari del naso: impregna noi, i nostri vestiti e il cappello che ormai vuole solo essere lasciato in pace, ne ha viste troppe, fatemi morire in pace, vi prego.

Torniamo puzzolenti e stanchissimi, ci godiamo il penultimo tramonto. Questo Panama è un cappello fortunato, ha visto il cielo diventare viola, rosso, azzurro e grigio nell’arco di un’ora, una sera, grazie ai favori di un temporale lontano. Ha visto nuvole scorrere veloci come macchine da corsa ed è stato posato ai piedi di rocce mutlicolori, striate come pasta sfoglia, friabili come biscotti ma alte e inesorabili come giganti. C’è Polifemo, lì da qualche parte, e lancia sassi a Ulisse, come mi ricorda Paolo. “Dove sta il cappello?” “lo hai lasciato sul divano”. O in bagno. O sull’amaca, o sul letto, la poltrona, la sala da pranzo, nello zaino, sullo scoglio, al bar, per strada, su quella panchina, è la cartina tornasole della mia sbadataggine. Il cane da guardia del mio intelletto. Lasciato ovunque, recuperato sempre,come ogni dialogo e ogni silenzio riposato tra noi due. Addormentato come noi, rilassato come le nostre gambe, caldo come i nostri colli sotto la brace delle due di pomeriggio, bagnato sempre, come le nostre schiene dopo ogni sgroppata giù per qualche sentiero o su per qualche mulattiera.

Poi si va.

Sono le sei di mattina e non ci credo che riusciamo a svegliarci davvero. Noi non ci svegliamo mai seriamente quando suona la sveglia, nei weekend come durante la settimana: la sveglia è un consiglio, la prendiamo come una suggestione filosofica, se vuoi, ecco, sono le sette, le sette e mezza, sarebbe opportuno cominciare a prepararsi, dovresti, potresti…vorresti? Però, guarda, fai tu che sai.

Invece ci alziamo e andiamo all’aliscafo delle sette.Il cappello è stremato e vuole dormire, come noi, e fa freddissimo per colpa di un’aria condizionata letale. Siamo al sud: siamo morti di caldo fino a quel momento ma a bordo di quel maledetto coso se avessimo una copertina di pile la useremmo. Il cappello rimane lì, appeso allo schienale, non serve a niente con quel gelo.

Dormiamo, anzi sonnecchiamo. Ascoltiamo i dialoghi superficiali, cretini e insopportabili di una famigliola romana antipaticamente borghese che è stata a Panarea. Moglie altissima, marito altissimo, due figli maschi, una bambina. Tutti bruni di sole, un po’ incartapecorita lei, stile olio solare stimolatore dell’abbronzatura. I maschi tutti in camicia bianca, pare si usi così, piace alla gente che piace e cazzate annesse. Discutono di vestiti da settecento euro e locali alla moda. La madre bacia e coccola il primogenito, il suo palese preferito: bocca da Cupido e viso da wasp all’italiana, snobismo da re dei fighi della compagnia fighetta di adolescenti, un guidatore di Mercedes allo stato larvale. Ce n’è abbastanza per invocare l’arrivo di una delle piaghe d’Egitto a mangiarseli tutti vivi, compresa la bambina bionda che saltella coi piedi sulla sua poltrona noncurante del fatto che sta ripetutamente pestando l’Ipad della madre.

Arriviamo con un’imprevedibile ora di anticipo e ci schiantiamo verso l’uscita dal mezzo, che recuperare i bagagli già sappiamo che sarà un casino: e poi non ne possiamo più di star seduti e ci girano le palle perché è finita la vacanza. La allungheremo passando la notte successiva a Lucca – bellissima di sera, calda ma non troppo, le nostre mani sulle colonne a baciare con le dita i marmi freddi; io insopportabilmente ubriaca come spesso accade, lo costringo a sbagliare strada e per punizione mi becco i racconti nerd sui cosplay e i personaggi di Warhammer. Ma a turbarmi un po’ mi torna talvolta in mente che no, il cappello non è più con me perché è rimasto appeso allo schienale dell’aliscafo. Me n’ero accorta mentre andavamo a recuperare la macchina. “No, il cappello! l’ho lasciato sull’aliscafo!” “No, sull’aliscafo no! Proprio all’ultimo!” “Dovrò procurarmene un altro!” “Noooooo!”

Insomma, non mi sopportava più, non ci sopportava più. Ha usato la sua magia e si è fatto invisibile di nuovo, stavolta per me. Non ha voluto scendere a Napoli: sentire il suo caldo davvero incredibile, superiore a qualsiasi altro caldo fino a quel momento sopportato. Non ha voluto sedersi ai tavoli di una pizzeria, essere lanciato sulla sedia di plastica, ammirare il parcheggiatore del locale che adescava clienti da tutti gli angoli della piazza. Quello porgeva un menù, gli dava un tavolo e loro manco capivano che stesse succedendo. Il cappello ha dichiarato: basta, per me va bene così. Ho ascoltato le vostre chiacchere ovunque, ho fatto la guardia mentre dormivate sotto le rocce, vi ho visti cambiare girovagare e tirare fuori acqua su acqua dagli zaini, mi avete costretto a fendere l’aria rotolando a velocità inaudita giù per una montagna. Ho guardato con voi ogni tramonto e ogni temporale. Ho sopportato i gatti e i momenti in cui tu, screanzata, mi usavi come portaoggetti, appallottolando il costume bagnato e ficcandomelo dentro. 

Ora basta, tornate a casa, io resto qui.

E noi siamo tornati a casa, all’eco delle telefonate di lavoro e dell’essere ripartoriti alla nostra stessa vita, risputati in una quotidianità senza infradito ai piedi. Una vita di pelle liscia e capelli setosi, e telefono, e computer. Con la testa al fresco.

(nell’immagine: una testimonianza fotografica del cappello, che è esistito)

cappello

Perdere e trovare

Cosa c’era, di più importante, ogni giorno ad ogni ora da subito dopo esserti infilata quel biglietto in tasca, fino a poco fa?

Un anno fa trascinavi gambe accaldate in piazza e, per caso, ascoltavi la presentazione di un suo libro. Lui ne stava leggendo dei passi con voce sentita. Parlava dell’ambiguità della bontà, della vera anima degli spiriti umanitari, della realtà che cambia mentre viaggia tra i monti dei nostri palmi, mentre la teniamo tra le mani.

In quell’occasione gli hai fatto un devasto di domande, tanto che un paio di signori nelle file avanti si sono girati per capire chi era l’importunatrice del caso. Non hai smesso, volevi fare domande scomode ma non ne esistevano, avevi davanti qualcuno che non aveva paura di vergognarsi. “Lei non pensa che la bontà sia egoismo, che lo spirito umanitario sia gratificazione dell’ego? Lei si sente, a volte, meschino nel fare del bene?” e lui rispondeva sì, certo, sono cattivo ed egoista. E tu non facevi che pensare a quanto ti stava simpatica questa cosa.

Dopo, quando la gente ha cominciato a diradarsi, gli sei andata vicino. Non avevi borse né portafogli. Ti piace così, uscire di casa senza pesi, quando puoi, però quella volta per questo motivo non hai potuto comprare il suo libro. Lo hai comprato tempo dopo. Gli hai detto sentiamoci, mi piacerebbe intervistarla, io lavoro su questi temi, se le fa piacere. Lui ha detto sì, le scrivo la mia mail, si metta in contatto con me. Ti ha dato un pezzo di carta con la mail, ha ripetuto “mi chiami, davvero” e poi sei tornata a casa. Eri allegra perché eri uscita per una granita ed eri tornata a casa con un accordo per un pezzo di attualità.

Poi non si sa bene, altri lavori, altre cose. Sei partita per le vacanze. Hai litigato con la persona sbagliata nel momento sbagliato. Hai avuto troppe grane in troppo poco tempo, e i giorni, le settimane, ti hanno investita e fatta loro come fieno in una rotoballa.

Poi, come spiega Antoine de Saint-Exupery – anche detto Il Melenso – anche una volpe non addomesticata come te può imparare a creare legami e può trovare il Piccolo Principe su qualche piccolo pianeta. “Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica”. Così ecco, eri lì, portata a uscire dalla tua tana di diffidenze, in un paradiso di fiori e farfalle che si posano sulla punta del tuo naso e accettano il rischio di morire per il movimento maldestro di una tua mano, tra brezze di vento gentili e pelle morbida e conosciuta, eri lì con il piccolo principe a sfidare le vertigini in alta montagna quando hai saputo che Luca Rastello era morto e tu no, non avresti potuto più chiedergli un’intervista.

Cosa c’era, di più importante, ogni giorno ad ogni ora da subito dopo esserti infilata quel biglietto in tasca, fino a poco fa?

Se hai imparato una lezione, ultimamente, è questa: a volte dai per persa una cosa, ti mentalizzi sul doverci rinunciare, e proprio in quel momento diventa tua. O il contrario: scopri ogni giorno quanto tutto può andar perso con facilità inimmaginabile. Come i biglietti.