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Fa piano che c’è il can che dorme.

“Fa piano che c’è il can che dorme”. Per quanto mi riguarda questa frase più di mille post potrebbe spiegare il rapporto patologico che la mia famiglia stringe con l’animale domestico del momento: cane, gatto o poiana che sia.

Il “can” di cui sopra era l’enorme pastore tedesco di mio padre, poi rimasto ai miei nonni dopo il matrimonio dei miei: si chiamava Tom. Di Tom si dice che mia nonna lo nutrisse con pasta alle verdure o simili e che ci grattasse il parmigiano sopra prima di dargliela (immaginatevi la scena, sessanta chili di cane che aspettano che la ciotola sia cosparsa di una corposa quantità di formaggio), che insistesse per dormire a letto con i miei nonni – non un bassotto, un pastore tedesco – che avesse un amore mostruoso per mia madre. E per mio padre. E per mio nonno. Insomma non potevi toccare nessuno che lui s’incazzava. Morì soppresso perché soffriva di displasia dell’anca e fu seppellito ai giardinetti pubblici, pare. Non voglio soffermarmi sul carattere lecito di seppellire un cane vicino all’altalena dei bambini, d’altronde quel posto al cane piaceva e questo credo abbia messo fine a qualsiasi discussione.

A casa mia di animali ne abbiamo avuti due, che mi hanno insegnato tanto sia sulla mia famiglia che sugli animali e soprattutto mi hanno  fatto comprendere appieno l’imbecillità della frase “se non ne hai uno non puoi capire”. Non è vero: ci sono persone che comprano cani, gatti e cincillà, ci convivono per anni e niente. Non si affezionano. E poi c’era il mio vicino di casa che adorava la nostra cockerina, Nina, e ogni volta che passava davanti al nostro balcone il cane usciva, si prendeva una dose di coccoling estremo e spudorato, agitava le orecchie e aspettava il balocco del giorno che era sempre lo stesso, un grissino di panetteria (non industriale, non sono buoni quelli) che la moglie del vicino allungava al consorte dal loro balcone. “Luciana, dàme un grisìn!! dàghe, ca le more el core!” (trad: Luciana, dammi un grissino! dài, che le muore il cuore!”). Cioé, mi spiego? “le muore il cuore”, ci rimane male, il cane. E non era manco suo, era nostro.

Nina, la cockerina, fu il mio primo animale domestico ed era estremamente simpatica, esuberante, buona e paziente. Quando, vecchia e malata, si vide mettere davanti il gatto femmina antipatico come le tasse che si stabilì in casa nostra, non mosse un muscolo. Il Gandhi del mondo canino. L’amore per Nina (che di per sé accattivava molto come cane, con quelle orecchie a forma di cotoletta e la mini coda che era sempre tutta uno svolazzo) si espanse a macchia d’olio in direzione nonnesca, per cui i genitori di mia madre la trattavano in maniera assurdamente reverenziale. Quando la tenevano ad Agosto le due settimane in cui noi andavamo in vacanza mia nonna ci informava spesso, al telefono, che “non faceva i nostri nomi, mai” perché il cane non fosse preso da botte di violento malumore. Per lo stesso tipo di logica per cui non nomini il marito morto davanti a una fresca vedova. Sto rendendo l’idea di cosa intendo per “patologico”?

Comunque Nina riceveva amore nella stessa misura in cui lo dava e, essendo cane, ne dava a pacchi, si sa che i cani sono così. Fedeli incondizionatamente. Se poi li nutri a pane e Nutella come facevamo noi (lo so, il cioccolato non si deve dare ai cani, ma a casa mia dal 1994 al 2008 la Nutella era di proprietà di due esseri viventi: mia madre e il cane).

Image(i suddetti madre e cane)

Nina morì vecchia e malata di tumore e non dimenticherò mai il giorno in cui fu soppressa perché mi colpì il fatto che mio padre ci mise venti minuti a compiere il tragitto da cinque che ci avrebbe condotti dal veterinario e mi stupì anche il fatto che il malefico gatto dormì per tre giorni nel punto della casa in cui c’era la cuccia della cagnolina di casa. Mi sembrò un fatto potente, considerato il carattere stronzo e, come dire, gattesco di Chekov.

L’attuale animale domestico è il caso più eclatante di “gli animali sono umani” secondo la famiglia Nazzareni. Trattasi di gatto appartenente alle categorie protette in quanto sprovvisto di occhio destro, misteriosamente fatto schizzare fuori dalla legittima orbita quando era ancora giovane e bella. Sparì di casa tre giorni e il quarto si presentò alla porta del balcone con un occhio che penzolava in maniera molto horror all’altezza della guancia. Reprimemmo schifo e ansia e consegnammo il gatto alla vicina (a quel tempo era ancora in affidamento congiunto intrabalconare) che lo portò dal veterinario, il quale tolse l’occhio e ci restituì il felino in versione pirata con tanto di bende. Ora era una diversamente abile, un soggetto difficile e dunque di default un membro della famiglia. Teoricamente si chiama Chekov ma in realtà viene appellata:

-amore della mamma (che sarei io);

-amore della nonna (che sarebbe, ovvio, mia mamma);

-Principessa Sissi (solo in casi rari);

-piccinina;

-animalaccia (quando vomita a raffica per casa tipo Linda Blair o Kate Winslet in Carnage);

-Bellabellabella (solo mio padre, però);

-Michael Jackson, perché è una fissata dell’igiene;

-Effetto Doppler, perché miagola tipo così: “mmeeeeeeeooooown“, come le monoposto quando passano davanti al pubblico di Le Mans;

-Cettinì, il Signore solo sa perché;

-tata, che è il nome di tutti gli individui piccoli e soffici della casa, cioé io, il gatto e talvolta Christine.

Qui la sudditanza psicologica verso l’animale sfiora la sindrome di Stoccolma. Il gatto non è il gatto, è IL GATTO. Che ha avuto una vita difficile e traumatizzata dalla perdita di un occhio e va coccolata, sbaciucchiata, abbracciata, sempre. Con lei ci si esprime solo a versi dolci, come con i neonati. Ogni mattina fà colazione con mia madre, in braccio a lei, e degusta brioches (sollevando le proteste della veterinaria, che fortunatamente è una di famiglia ed accetta molti strappi alla regola). Con lei si segue la politica del contatto genitoriale: il gatto non tocca il suolo, viene trasportato di stanza in stanza tra le braccia di uno di noi. La coperta della sera la sceglie lei. Il colore della mobilia alla fine pure, perché lei vive solo su blu o rosso o su sfumature dei tali. Il mio letto, ovviamente, è suo. Alle cinque e mezza si piazza davanti a mio padre, che sta lavorando, ed esige che lui se ne vada perché la giornata lavorativa è finita e lei vuole – ripeto, VUOLE – la sua poltrona. Non accetta acqua che sia rimasta nella ciotola per più di un’ora. Non accetta cibo che sia rimasto all’aria aperta più di mezz’ora. Sotto Natale vuole il Panettone, perché la tradizione è tradizione.

Ogni azione combinata dal gatto ha un senso e io non so come abbia fatto, ma ha sottomesso negli anni tutta la mia famiglia, me compresa naturalmente. Se si esce di casa si lasciano una-due luci accese perché così, se lei è sveglia, vede meglio dove va (e questo è fondamentale perché lei vede in 2D).

E ora il gatto si è ammalato: gravemente, diciamo che non consideriamo che abbia malattie successive a questa. Diciamo che contiamo che arrivi al prossimo panettone, ci speriamo,ecco.

Secondo voi, la situazione è peggiorata? certo. I pasti del gatto vengono costantemente monitorati perché sono essenziale indice di miglioramento; si fanno teatrini incredibili di questo tipo:

“mmmhh…a me questo nuovo cibo per gatti (costato ottanta euro a grammo, n.d.a.) sembra molto buono…mmh lo vorresti assaggiare papà?”

“Uh, sì, mi piacerebbe moltissimo, uh (occhiata al gatto lieta e ottimista) però non posso mangiarlo…uh quanto mi piacerebbe mangiarlo…”

Segue scena di gatto che, incuriosito, si reca alla ciotola, seguito dallo sguardo attento di noi tre. Quando ha finito di nutrirsi segue nostra ovazione con ballo di gruppo e complimentarsi vario: “ma brava, amorino, brava, hai mangiato, brava, bella lei l’amore della mamma-nonna-nonno…”.

Il suo cuore viene auscultato tre volte all’ora. I gonfiori addominali ossessivamente monitorati. Le funzioni intestinali, che ve lo dico a fare. I parenti chiamano, si informano, formulano ipotesi più o meno tenebrose sul destino della degente. Lei, in tutto questo, si gode la convalescenza rotolandosi sul mio piumone e gustando manicaretti da Combalzero. Che io sappia è l’unico gatto al mondo che si reca in clinica veterinaria dentro una gabbietta fornita di copertina di pile personalizzata e peluche del cuore, un topo grigio dell’Ikea con il quale dorme tutte le notti.

In tutto questo io non ho una spiegazione del perché si crei un rapporto del genere per certe persone e per altre no. Il fatto di non aver vissuto in campagna da tre generazioni sicuramente per la mia famiglia ha influito, perché non siamo più abituati ad avere rapporti uomo-animale, consideriamo solo più il rapporto uomo-uomo. Questo spiegherebbe anche l’acquisto di un ingombrante numero di collarini in paillettes e leopardati comprati da qualche anno a questa parte, che giustamente la veterinaria boccia perché “gli animali sono animali”. Giustamente.

Non credo ci sia una cura per questo amore patologico ma tra le forme di amore patologico, non ho problemi a dirlo, è quello meno nocivo. E poi è diffuso: basti dire che il gatto secolare dei miei zii ha la fissa di bere dagli innaffiatoi e in casa loro, nel loro salotto, il gatto può trovare un innaffiatoio personale dal quale abbeverarsi, estate e inverno.

Per dire: mica siamo i soli, eh.